I Tornado "disarmati" vanno in Iraq e non in Libia
Mandiamo Tornado in Kuwait, nelle operazioni anti-Califfato, ma li mandiamo disarmati e solo per missioni di ricognizione. Così il ministro Pinotti giustifica, di fronte alle critiche dei pacifisti del M5S, l'ennesima "missione di pace" fatta dai nostri militari. Intanto stiamo lasciando scoperta la Libia, terra di jihad.
La conferma del rafforzamento del dispositivo militare italiano contro il Califfato è stata fornita giovedì alle commissioni parlamentari esteri e Difesa dal Ministro Roberta Pinotti che ha annunciato l’invio di 4 bombardieri Tornado e 135 militari dell’Aeronautica in Kuwait, dove già operano 2 droni Predator A Plus e un aereo cisterna KC-767A.
L’annuncio del ministro, peraltro già anticipato da un paio di interviste, ha sollevato qualche polemica forse ingiustificata ma non ha purtroppo stimolato un dibattito politico di cui si dovrebbe invece sentire il bisogno. Il M5S contesta alla Pinotti di averci condotto in guerra, ma l’Italia è di fatto belligerante contro lo Stato Islamico (con quel che comporta in termini di rischio terroristico) fin dal 20 agosto quando venne annunciato l’invio di armi ai curdi.
Semmai fa sorridere la precisazione della Pinotti che i Tornado arrivati ieri in Kuwait, gli stessi bombardieri impiegati anche dai britannici sull’Iraq, costituiscono «una componente aerea pilotata con esclusivi compiti di ricognizione» affiancando di fatto con prestazioni diverse in termini di velocità i due droni che hanno compiti di intelligence e sorveglianza. Se si esclude il tanker che fa il pieno in volo ai jet alleati i 6 velivoli italiani si limiteranno a sorvolare i territori iracheni in mano al Califfato alla ricerca di obiettivi che altri bombarderanno.
Una decisione forse solo temporanea, ma non per questo meno ridicola. Certo è impossibile dimenticare 20 anni di retorica sulle “missioni di pace” ma è altrettanto vero che contro i militari di Gheddafi (nostri “ex alleati”) non abbiamo avuto remore a sganciare oltre 700, fra bombe e missili, mentre di fronte ai jihadisti ormai infiltrati ovunque mostriamo codardia.
Il ministro Pinotti si è quasi giustificata dicendo che «per ulteriore chiarezza, specifico che i “compiti di ricognizione” non comportano né l’ingaggio di bersagli né la cosiddetta “illuminazione” degli stessi per consentire ad altri di colpirli», sottolineando come «questa capacità aggiuntiva non modificherà il profilo dell’intervento italiano, essendo esclusa ogni funzione di bombardamento e, quindi, di partecipazione diretta ai combattimenti».
Quasi come a dire ad Abu Bakr al-Baghdadi che in nostri aerei scatteranno solo qualche foto a lui e ai suoi tagliagole. C’è da restare sconcertati di fronte all’ambiguità che porta gli italiani ad andare in guerra senza sparare, con i bombardieri utilizzati solo come ricognitori. Certo i Tornado possono svolgere entrambi i compiti, ma perché oltre a individuare gli obiettivi i nostri piloti non possono anche colpirli con le bombe e i missili che ogni aereo può imbarcare fino a 9 tonnellate di carico?
Se il governo ritiene che l’Is sia una minaccia che va fermata, allora perché non usare le bombe come fanno, non solo anglo-americani e francesi, ma pure danesi, belgi, olandesi, australiani, canadesi e norvegesi? Il ministro ha ammesso che l’invio dei Tornado è stato determinato dalle richieste della Coalizione, cioè degli Stati Uniti che a metà novembre avevano realizzato ben l’85% delle missioni di attacco aereo effettuate dalla Coalizione sui cieli di Siria (circa 400) e Iraq (circa 500) e che evidentemente chiedono un maggior contributo agli alleati, anche per ridurre i costi bellici.
A questo proposito non è stato specificato dal Ministro Pinotti quanto costerà la missione dei 7 velivoli italiani cui si aggiungeranno i 200 militari dell’esercito che dovranno istituire una base per addestrare forze curde e irachene e gli 80 consiglieri militari che verranno inseriti nei comandi dell’esercito di Baghdad: in tutto un po’ di più di 400 militari contando quelli dell’Aeronautica.
In ogni caso si tratta di un’altra missione che impegna un numero limitato ma costoso di forze in un’area dove la nostra presenza è inutile a tutti i fini politici e militari. Pochi giorni prima il ministro Pinotti aveva annunciato che l’Italia manterrà 500 militari in Afghanistan ancora per tutto il 2015, come ci hanno chiesto gli americani. Di fatto continuiamo ad aumentare impegni bellici e missioni all’estero mentre il governo continua a tagliare drasticamente i fondi per l’apparato militare. Mandiamo truppe e mezzi e buttiamo soldi in guerre inutili dove non vengono perseguiti gli interessi dell’Italia. Come nel caso della blanda guerra contro lo Stato Islamico con l’obiettivo ormai neppure tanto nascosto di abbattere il regime di Assad che i jihadisti li combatte per davvero.
Di fatto l’Italia è sempre pronta a mandare truppe dove lo chiedono gli alleati e la “comunità internazionale”, entità astratta che ormai ha preso il posto della definizione degli interessi nazionali, unico motivo che dovrebbe spingere un governo a mandare i propri soldati in guerra. Benché la Difesa non abbia un quattrino, aerei e truppe vanno in Iraq, restano in Afghanistan, Libano, Kosovo e sono presenti persino in Mali, Niger e Repubblica Centrafricana perché ce lo ha chiesto la “comunità internazionale”.
In compenso lasciamo però andare a fondo la Libia dove la comunità internazionale, Onu, Nato e Ue non vogliono intervenire per il semplice fatto che Tripoli non è ritenuta strategica per gli interessi nazionali dei nostri partner. Invece di fare presente agli alleati che a noi la Libia interessa e proprio lì dobbiamo concentrare i nostri sforzi anche militari, rispondiamo sempre “signorsì” combattendo le guerre per gli interessi altrui ma evitando di salvaguardare i nostri.
Interveniamo in Paesi dove il nostro ruolo è e resterà marginale e ininfluente e dove non dovremmo continuare a buttare soldi che non abbiamo. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha detto che di intervento militare in Libia non se ne parla, se non in un contesto di peacekeeping internazionale. «Non escludo in futuro un'azione di peacekeeping, quello che escludo è che se non c'è un embrione di soluzione della questione, ci possa essere una soluzione militare della questione». Eppure il fronte islamista Alba della Libia ha più volte sostenuto che il conflitto in atto deve essere risolto con le armi, che a loro giungono, a quanto pare, dalla Turchia e da quel Qatar i cui vertici politici e militari sono stati accolti con tanti inchini a Roma proprio nei giorni scorsi.
Eppure il governo libico legittimo nato dalle elezioni del giugno scorso e riconosciuto dalla comunità internazionale ci chiede da tempo di fornire aiuti militari come già sta facendo l’Egitto, che preme invano da mesi sull’Italia per impedire che la Libia tracolli. L’occasione sarebbe ghiotta sul piano politico poiché il disinteresse degli alleati consentirebbe all’Italia di ritagliarsi un ruolo di potenza stabilizzatrice nell’area del Mediterraneo creando un asse con Egitto e Algeria, sorretti da regimi anti jihadisti. Sul piano militare se inviassimo in Libia lo stesso dispositivo mandato a combattere in Iraq forniremmo un grande contributo alla guerra contro i jihadisti in un’area dove sono in gioco i nostri interessi nazionali inclusi quelli energetici. Istruttori e consiglieri militari darebbero un valore aggiunto alle forze governative impegnate a riprendere Bengasi controllata dai qaedisti, i droni potrebbero individuare i bersagli che i Tornado potrebbero colpire. Ovviamente se fossero dotati di bombe e missili.