I sospetti su Biden e la complicità dei media
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Un documento dell'Fbi rivelerebbe che Biden, attuale presidente, fosse implicato in uno “schema criminale” che avrebbe comportato uno scambio “soldi in cambio di decisioni politiche”. I media tacciono o forniscono alla Casa Bianca argomenti per la difesa. In passato avevano censurato lo scoop del NY Post su questa vicenda.
Stati Uniti, alla Camera del Congresso, la Commissione di supervisione ha emesso un mandato di comparizione per l’Fbi, riguardo un documento che riguarderebbe un caso di corruzione di Joe Biden, il presidente in carica. Non si tratta dunque di cosa da poco. Il presidente, ben prima della sua campagna elettorale del 2020, avrebbe partecipato ai guadagni, anche illeciti, di suo figlio Hunter Biden. Uno “schema criminale” che avrebbe comportato uno scambio “soldi in cambio di decisioni politiche” quando era vicepresidente nell’amministrazione Obama.
L’esistenza di questo documento, su cui ora vuole indagare la Commissione congressuale, è stata rivelata da un “gola profonda”, un informatore anonimo, una fonte interna all’Fbi. È già il secondo informatore anonimo che si fa avanti, con la Commissione a guida repubblicana, per rivelare qualcosa su Hunter Biden. Il primo informatore, in aprile, era una fonte interna all’Irs (l’agenzia delle entrate americana) ed aveva rivelato come l’agenzia non avesse voluto indagare sul figlio del futuro presidente per motivi politici. Adesso l’accusa di questo secondo informatore è ancora più pesante perché riguarderebbe lo stesso futuro presidente e il suo ruolo negli affari di famiglia in Paesi stranieri, quali Cina, Messico, Russia e Ucraina. Il documento che proverebbe come l’Fbi sappia di questi affari illeciti è il Fd-1023, un file creato nel giugno 2020 (in piena campagna elettorale presidenziale).
Secondo queste rivelazioni, Biden avrebbe guadagnato dagli affari di famiglia e avrebbe fatto pressioni, in qualità di vicepresidente della prima potenza mondiale, perché questi affari andassero bene. Ad esempio, c’è il sospetto che, quando Hunter Biden era nel consiglio di amministrazione dell’azienda ucraina di gas Burisma, il padre abbia influenzato la politica energetica americana in modo da sostenere l’industria del gas naturale ucraino.
Il primo impeachment a Trump, il famoso “Ukraine gate” è partito da una telefonata in cui l’allora presidente repubblicano chiedeva al neo-eletto omologo ucraino Volodymyr Zelensky di indagare proprio su Hunter Biden. Il sospetto (di Trump) era quello che Biden avesse ricattato l’Ucraina quando la magistratura di Kiev aveva iniziato a indagare su Hunter Biden: se avessero indagato su suo figlio, avrebbe sospeso gli aiuti militari. Ma a finire sotto impeachment è stato Trump. In un curioso caso di ribaltamento delle responsabilità, è Trump che è stato accusato di aver ricattato il governo ucraino, per aver chiesto se il vicepresidente del suo predecessore l’avesse ricattato.
L’aspetto più curioso di tutta questa vicenda è l’atteggiamento dei media. I sospetti su Hunter Biden sono partiti da un caso mediatico: il ritrovamento di email compromettenti nel computer portatile, dimenticato da un tecnico dal figlio del futuro presidente. Il New York Post ha pubblicato uno scoop, un mese prima delle elezioni. La pagina del New York Post e quelle di tutti coloro che avevano rilanciato lo scoop (inclusa la Casa Bianca) sono state oscurate o sospese dai social network maggiori, soprattutto Twitter e Facebook. I Twitter files, svelati dal nuovo proprietario Elon Musk, confermano che si trattò di una scelta politica e deliberata. Solo un anno dopo, altri media, quali New York Times, Washington Post e Cbs, hanno confermato l’autenticità del contenuto di quel computer portatile del figlio dell’ormai presidente, troppo tardi per influenzare le elezioni, comunque.
Adesso che sta emergendo un documento ufficiale dell’Fbi in cui si confermano questi sospetti e viene coinvolto direttamente il presidente, i media che fanno? Forniscono alla Casa Bianca gli argomenti per la difesa. Come riporta il New York Post, il primo ad aver scoperchiato questa pentola, il portavoce della Casa Bianca Ian Sams, «ha citato il resoconto di Politico secondo cui l'accusa “è destinata a scatenare una feroce reazione e scetticismo” e ha notato che la CNN l'ha definita un’“accusa non verificata”. Sams avrebbe potuto notare che altri, in particolare il New York Times, non si sono degnati neppure di dare la notizia del mandato di comparizione». Lo stesso New York Post fa notare quanto diverso fosse l’atteggiamento ai tempi dello scandalo Watergate, quando occorse appena un anno, dall’inizio dell’indagine, per portare alle dimissioni del presidente in carica Richard Nixon.