I prìncipi che ingannarono Giovanni Paolo II sull'Europa
"La Costituzione europea doveva salvaguardare la società perché non perdesse di vista il punto di riferimento dell'orizzonte ideale, dove il cielo s'univa alla terra. Ma San Giovanni Paolo II venne ingannato dai leader europei sulle vuote parole “uguaglianza, libertà e fratellanza”, vuote perché staccate dalla realtà dalla deificata ragione dell’Illuminismo francese". La seconda parte della lectio di Grygiel alla Giornata della dottrina sociale.
La seconda parte della lectio magistralis sull'Europa di Stanisław Grygiel alla Giornata della dottrina sociale della Chiesa. In questa seconda parte il professore emerito dell'Istituto Giovanni Paolo II analizza il rapporto del Principe con le leggi e ricorda di quando San Giovanni Paolo II venne ingannato dai leader europei sul preambolo costituzionale dell'Ue. Domani la terza e ultima puntata. LEGGI LA PRIMA PUNTATA
***
Il Principe che detta all’Europa come debba vivere distrugge le radici con le quali essa attecchisce nel cielo della Trascendenza della verità, del bene e del bello. Egli sottomette gli Europei a effimere leggi e procedure cosi da farli dire insieme con il Kirilow dei “Demoni” di Dostoevskij, che “se credono, non credono di credere, e se non credono, non credono di non credere”[1]. In Europa egli spegne la luce della domanda greca (episteme) che chiede alla verità di non nascondersi (a-letheia) dietro le nuvole delle opinioni (doxa). Sono proprio queste nuvole a servire al suo potere “principesco”, mentre la domanda sulla verità e sul bene, che in certo modo già conosce, gli ricorda che il potere non appartiene a lui ma a Colui nel quale zampillano le sorgenti della verità e del bene. Il Principe che cerca di dominare l’Europa non è consapevole del fatto che essa avviene nella venerazione socratica del “Dio ignoto” il cui altare si trova in Atene (cfr. Ap 17, 23) e nella profezia giudaica che aveva annunciato la venuta del Messia sulla terra per vivificarla in modo salvifico con la rugiada mattutina (cfr. Is 45, 8) della libertà di Dio[2].
Il Principe combatte l’Europa che nasce negli uomini che dimorano nel dialogo con il Divino Logos-Persona rimasto in mezzo a loro. Papa Francesco pensava forse a questo, quando ha detto che l’Europa “non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone”[3]. Chiudendo l’Europa nei numeri e nelle istituzioni, il Principe le sbarra la via del dialogo con la Parola, alla quale si rivolge da un lato la fondamentale domanda greca sulla verità e da un altro lato la profezia di Gerusalemme che annuncia la Sua venuta.
I Greci identificavano la verità con la giustizia, in cui vedevano “la figlia di Zeus”[4]. Alla “figlia di Dio”, diceva Platone, solo l’amico della saggezza (filo-sofos) può avvicinarsi, poiché soltanto lui scorge la verità alla luce del Bene che come il sole sorge nei suoi atti d’amore che rendono giustizia alla verità delle cose. Socrate diceva che “vive peggio /…/ chi ha malvagità nell’anima, e non se ne libera”[5]. Cristo completa: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32).
Secondo Platone l’uomo e lo Stato seguono le due specie di giustizia e, quindi, anche le due di verità. Una di queste consiste “nella misura, nel peso e nel numero”. La giustizia così determinata la chiamiamo giustizia matematica. Il legislatore e lo Stato regolano questa giustizia “con il sorteggio”, assegnando a tutti parti uguali del pane comune. L’altra giustizia, da Platone ritenuta vera giustizia e alla quale perciò lo Stato non può rinunciare, consiste nel “giudizio di Zeus”. “Agli uomini viene sempre raramente in soccorso, ma per quanto venga in aiuto a Stati e a privati cittadini realizza ogni sorta di beni: al maggiore distribuisce di più, al minore di meno, assegnando all’uno e all’altro quanto è conveniente secondo loro natura”. Lo Stato deve quindi badare a “chi possiede maggiore virtù”[6]. Prendendo umanamente le cose, l’osservanza delle due giustizie è impossibile. Occorre cercare di realizzarle “invocando allora, nelle nostre preghiere, il Dio e la buona fortuna perché dirigano la sorte nella direzione di ciò che è più giusto”[7].
I Greci credevano che l’ingiustizia fosse “figlia della tracotanza” (hybris)[8]. La tracotanza consegue alla convinzione che la ragione umana, dominando i numeri, può dominare tutto[9]. L’uomo gonfio della tracotanza provocata dal suo dominare i numeri, l’uomo che non riconosce le leggi che nascono nell’esperienza dei doveri[10], cioè nell’esperienza della presenza delle altre persone, s’arroga il diritto di decidere la vita e la morte. Ma “è pieno di paura, convulsioni e dolori per tutta la vita”. Non vivendo in timore Dei, ha paura dei più forti di lui, così da non dire la verità persino quando la dice. Non affidato alla giustizia del “giudizio di Dio”, è “povero agli occhi di chi sa contemplare la sua intera anima”[11].
Man mano che in essa viene a mancare il Grande Contenuto, cioè lo spirito d’amore che nella madre unisce la paternità e la figliolanza in una sola cosa, l’Europa degenera in una bastardia spirituale. Di conseguenza quest’Europa si consegna nelle mani dei politici che non si lasciano guidare se non dalla giustizia matematica in vari modi calcolata. I giocatori politici, “partecipando in piccola parte della verità”[12], allontanano gli uomini “dal loro bene e dalla verità”[13] e in tal modo provocano il caos, sommosse e guerre. Ad uno di questi, Callicle, il politico del nihilismo nel “Gorgia” di Platone, Socrate rivolge le parole che se fossero oggi ascoltate in Europa potrebbero restaurare la sua legittimità perduta: “Credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d’accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi”[14]. Se in Europa fossero al governo dei politici socratici, in essa governerebbe la giustizia della verità che “non si confuta mai”[15].
Tutte le leggi devono condurre alla verità che si rivela nelle persone presenti l’una all’altra. Tutte queste leggi devono difendere le dimore delle persone così da far loro sentire che la loro identità non è affatto minacciata dall’esterno. La via da seguire nel concepire e nel fare queste leggi deve essere tracciata dall’“Introduzione”, prooimon, di Platone. L’“Introduzione”, oggi chiamata Preambolo, dovrebbe introdurre i cittadini nel lavoro delle generazioni passate e con esse concreare le leggi che obbligherebbero al lavoro per il bene comune, cioè per il Futuro. Dovrebbe allora indicare la via che conduce i cittadini alla casa familiare. Platone la intravede nel rispetto dovuto a Dio, ai genitori (tradizione), all’inestimabile anima dell’uomo e alla bellezza del suo corpo. In altri termini, l’“Introduzione” deve parlare della giustizia dovuta alla verità delle persone reciprocamente presenti a sé, che vivono cioè se stesse come un loro reciproco compito (munus).
In caso contrario questa “Introduzione” condurrà gli uomini in sentieri impervi dove ciascuno crea per sé il proprio bene e la propria verità. Gli uomini nei cui nomi e cognomi non c’è la tradizione della famiglia né la speranza che aiuta a permanere nella certezza del senso della vita, provocano una cacofonia in se stessi e nella società. La verità fugge dalla cacofonia, la verità dimora soltanto nella sinfonia che suona nelle persone e tra le persone. Dalle mie parti, alla domanda: “Come ti chiami?”, il bambino risponde indicando la sua casa familiare, come se volesse dire: “Essa è il mio cognome”. Non sono i bambini ad avere “un disaccordo” in sé e a contraddire se stessi, perché loro dimorano nella casa familiare dell’amore, ma sono invece gli adulti che dalla casa familiare si sono allontanati.
L’“Introduzione” alle leggi fondamentali (Costituzione) deve salvaguardare la società perché non perda di vista il punto di riferimento per le proprie azioni e per le leggi che devono servirle[16]. Deve aiutare i cittadini ad entrare nel dialogo laborioso con gli antenati, cioè nella tradizione, e nel dialogo altrettanto laborioso con ciò che ad-viene, cioè nella speranza. Nel Preambolo non si deve dunque parlare delle cose di poca importanza. Esso deve disegnare un orizzonte ideale, dove il cielo s’unisce alla terra, rendendola terra familiare che permette di comprendere l’uomo.
Invano Giovanni Paolo II chiese agli autori della cosiddetta Costituzione Europea del 2003 di anteporle un tale Preambolo. L’avevano ingannato facendogli discorsi basati sulle vuote parole “uguaglianza, libertà e fratellanza”, vuote perché staccate dalla realtà dalla deificata ragione dell’Illuminismo francese. Delle parole vuote la ragione calcolante fa entità economico-politiche puramente matematiche e banalmente prosaiche, nelle quali la vita spirituale si spegne.
I politici che amministrano numeri e cose di poca importanza, non stabiliti sulla domanda fondamentale sul bene comune che sempre si trova davanti a noi, non si danno cura che le leggi da loro statuite riflettano “le divine necessità” stabilite dalla natura che “neppure Dio risulta combattere”[17]. Gli amministratori dei numeri e delle cose di poca importanza si preoccupano del progresso e non del suo contenuto e del suo orientamento. Di conseguenza, invece di creare gli Stati come opere d’arte[18], producono gli Stati-kitsch, in cui i cittadini non possono dimorare poiché in tali realtà le persone non si rivelano.
“È difficile legiferare nell’ambito di questa materia che è stata precedentemente ordinata in tal modo”[19]. Per farlo bisogna avere la visione dello Stato basato sulle fondamenta che trascendono la storia. I politici privi di tale visione creano i Preamboli delle parole corrotte dal saeculum, cioè delle parole il cui contenuto dipende dal tempo che passa, delle parole non fondate nel Logos dell’atto della creazione. L’antropologia corrotta dei politici privi della visione della verità dell’uomo deforma la loro esperienza morale, così da lasciare i cittadini in preda ai “demoni” che li fanno vagare “nella nebbia”[20].
In un mondo di gente frastornata dai “demoni”, “le città non avranno tregua dai mali /…/ e neppure, /…/ il genere umano”. In un mondo così fatto nessuna “città può essere felice, nella vita privata come in quella pubblica”[21]. Gli uomini che non fissano lo sguardo sulla verità che non è possibile non solo separare da Dio ma persino da Lui distinguerla, così che per l’uomo non esista un bene di essa più grande, si mostreranno vili di fronte sia alla morte che alla perdita delle cose che tengono tra le mani. Della loro vigliaccheria contageranno lo Stato[22], così che anch’esso “non sarà mai causa né di grandi beni né di grandi mali”[23]. “Quali discorsi privati /…/ potranno opporsi con successo a costoro?” - Platone chiede e risponde: “Credo /…/ nessuno. No davvero /…/ anzi il solo tentativo sarebbe una grande follia. Non esiste, non è mai esistito e temo non esisterà mai un carattere diverso, che abbia ricevuto un’educazione alla virtù contraria a quella propugnata da costoro; intendo un carattere umano, amico, perché secondo il proverbio facciamo eccezione per uno divino. Occorre infatti essere ben consapevoli che in un simile regime politico, qualunque cosa si salvi e proceda per il verso giusto, si può ben dire che si salva per volontà di un Dio”[24].
Platone scrive con amarezza: “Deploro proprio il fatto che nessuna delle forme di governo attuali sia degna di una natura filosofica”[25], cioè dell’amico della saggezza. Negli Stati amministrati dagli “amanti del potere e delle opinioni”[26] e non della verità e della giustizia, gli uomini come asini, cavalli, buoi “abituati a procedere con grande libertà e fierezza, urtano per la strada chiunque incontrino, se non si scansa, e parimenti ogni altra cosa si riempie di libertà”[27]. In un regime così “democratico” (Platone), “i cittadini sono liberi, la città si riempie di libertà e di franchezza, e c’è la possibilità di fare ciò che si vuole. /…/ Ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli pare”[28]. Si possono uccidere gli altri ed anche se stessi a condizione che si vinca quel dio che è il “dolore proprio della paura della morte”[29].
Gli amanti del potere, non conoscendo l’amore del Piccolo Principe per la Rosa e non riconoscendo il fatto che la verità che si rivela nella propria bellezza esige non tanto la giustizia matematica quanto la giustizia “secondo il giudizio di Zeus”, distruggono lo Stato con la loro ira contro questo “giudizio” divino. Con questa ira contro l’amore e contro la sua giustizia, distruggono quei fondamenti dello Stato che sono le amicizie, i matrimoni e le famiglie. “Il principio della nascita di ogni Stato non consiste forse nell’unione e nella relazione coniugale? /…/ Probabilmente, allora, se si stabiliscono per prime le leggi coniugali, risultano ben stabilite ed orientano lo Stato nella giusta direzione”[30]. Lo Stato che si mette al di là del matrimonio, della famiglia e della nazione vieta alla coscienza morale di andare contro la corrente della storia[31], costringe l’uomo a guardare la storia così come se essa fosse “centro” dalla sua vita e della sua coscienza morale. Lo Stato costruito su un falso “centro dell’universo e della storia” può servire a tutto tranne che alle amicizie, ai matrimoni e alle famiglie[32]. In altre parole, colui che non ritorna al Principio dell’Europa invece di edificarla la rovina. Ripeterò le ben note parole di Robert Schumann, che l’Europa sarà cristiana o non ci sarà più.
Il Principio-Persona che è “centro dell’universo e della storia” costituisce il fondamento dell’Europa e il suo bene comune. A ciò che accade in questo Principio l’Europa deve ritornare, come si ritorna alla casa familiare che dà l’identità ai suoi abitanti. Sono loro che, grazie al sapere chi essi siano, creano la cultura, mentre la produttura la fanno i mercenari, nelle cui menti, e talvolta anche sul loro corpo, il Principe marchia i numeri e costringe ciascuno a rispondere con essi alla domanda: “Chi sei?”.
CONTINUA - 2
GIA' PUBBLICATO: 1- Europa, evento spirituale
[1] F. Dostojewski, “Demoni”, Warszawa 1958, s. 609.
[2] Il profeta Isaia grida al cielo: Rorate coeli desuper et nubes pluant iustum.
[3] Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio “Ripensare l’Europa”, promosso dalla Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE), Roma 2017.
[4] Eschilo, “Coefore”, v. 970-972.
[5] Platone, “Gorgia”, 478 e.
[6] Platone, “Leggi”, 757 b, c.
[7] Platone, “Leggi”, 757 e.
[8] Platone, “Leggi”, 691 c.
[9] Cfr. la nota 1.
[10] Cfr. Arystoteles, „Polityka”, Warszawa 1964, s. 130 i n..
[11] Platone, “Repubblica”, 579, e.
[12] Platone, “Leggi”, 804, b.
[13] Platone, “Gorgia”, 472 b.
[14] Platone, “Gorgia”, 482 b-c.
[15] Platone, “Gorgia”, 473 b.
[16] Cfr. Platone, “Leggi”, 723, 724, 726, 727, 728.
[17] Cfr. Platone, “Leggi”, 818 b, d.
[18] Platone, “Leggi”, 817 b. d-e.
[19] Platone, “Leggi”, 818, e,
[20] Cfr. Aleksander Puszkin, „Biesy”, in: „Lutnia Puszkina””, Warszawa 1949, s. 93-94.
[21] Platone, “Repubblica”, 473 d-e.
[22] Cfr. Platone, “Repubblica”, 485 c, 486 a-b.
[23] Platone, “Repubblica”, 491 e.
[24] Platone, “Repubblica”, 492 d-e, 493 a.
[25] Platone, “Repubblica”, 497, b.
[26] Cfr. Platone, “Repubblica”, 475 e, 479 d-e, 480 a.
[27] Platone, “Repubblica”, 563, c-d.
[28] Platone, “Repubblica”, 557, b.
[29]Cfr. F. Dostojewski, „Biesy” („Demoni”), Warszawa 1958, s. 120.
[30] Platone, “Leggi”, 721, a.
[31] Cfr. Karol Wojtyła, “Pensando patria…”, in: “Tutte le opere letterarie”, Milano 2001, p. 235.
[32] Cfr. Aristotele, “Etica Nicomachea”, 1155 a.