I molti bluff del successo cinese nella lotta al virus
La Cina è vicina, da quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus da Wuhan, è ancora più vicina. Esperti cinesi suggeriscono misure draconiane in Lombardia, Huawei rilancia la cooperazione su 5G e si parla di "Via della Salute" oltre a quella "della Seta". Ma quanto è reale e quanto è gonfiato il successo cinese nella lotta al virus?
La Cina è vicina, da quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus da Wuhan, è ancora più vicina. In Lombardia, al fianco del governatore della Lombardia, Attilio Fontana, sono comparsi i medici esperti inviati dalla Cina, che in conferenza stampa hanno detto che “c’è ancora troppa gente in giro” e che noi italiani abbiamo “ancora molto da imparare”. E da chi, se non dal regime totalitario più intrusivo del mondo, capace di catalogare i suoi cittadini con tecnologia a riconoscimento facciale? La conferenza stampa cinese a Milano fa parte di un’offensiva dell’informazione della Cina, che attualmente si considera come il primo Paese in grado di sconfiggere del tutto il nuovo morbo. Ma quanto fondate sono le informazioni di Pechino e quanto il loro modello è effettivamente efficace?
La Cina invia esperti, know-how e materiali biologici utili a contenere il contagio. E non c’è che rendergliene merito. Ma tutto ha un prezzo e sta entrando nel lessico politico una nuova definizione: la “Via della Salute”, nuova partnership italiana cinese, seguito naturale della Via della Seta, dove è inevitabilmente la Cina a far la parte del leone. Il premier Conte è sempre al centro della tessitura di questi rapporti. L’amministrazione delegato di Huawei Italia, Thomas Miao, parla della partnership in termini politici oltre che economici, rilanciando l’idea della cooperazione fra Roma e Pechino per la costituzione dell’infrastruttura del 5G (la nuova rete ultra-rapida). Anche per il 5G, la lotta cinese al virus viene citata come esempio: “A Wuhan l’efficace scambio di dati è stato un fattore cruciale per controllare l’epidemia – dichiarava Miao - poiché ha supportato le funzioni ordinarie, nonché servizi come la raccolta di dati, la diagnosi e il monitoraggio da remoto, la trasmissione di immagini ad alta risoluzione, una migliore collaborazione tra ospedali”. Il 5G è un settore sensibile, perché facilmente “militarizzabile”, perché chi ne controlla l’infrastruttura potrebbe, in un futuro non troppo lontano, dominare sui futuri campi di battaglia. Per questo motivo, l’amministrazione Trump boicotta i progetti di 5G della Huawei e fa pressioni su quei governi che l’accettano come partner privilegiato. L’Italia non è esclusa da eventuali ritorsioni.
In sostanza, la Cina cavalca il successo della sua lotta al virus, non solo per esportare medici e know how, ma anche il fior fiore dei suoi progetti, politici molto più che economici. Ma alla fine, è vero che la Cina abbia avuto così successo nella lotta al Covid-19? Da questa settimana, gli organi di stampa ufficiali di Pechino riportano “nessuna ulteriore infezione da coronavirus” nella città di Wuhan, da dove tutto è partito. Anche i “contagi domestici”, cioè da persona a persona all’interno dei confini cinesi, sono arrivati ufficialmente a zero. Dunque ci si prepara a contrastare i casi di ritorno, europei e americani. E questo sarà certamente premessa per un’ulteriore chiusura e controllo alle dogane. Tuttavia è molto dubbio che la Cina (1 miliardo e mezzo di abitanti, tre mesi di epidemia) abbia meno morti rispetto all’Italia (60 milioni di abitanti, un mese di epidemia). Secondo l’antropologo Steven Mosher, i successi vantati dal Partito non possono essere considerati credibili. Se fossero veri i dati forniti da Pechino “sarebbe la più rapida fine di una pandemia in tutta la storia umana”. Ma: “quel che i vertici comunisti stanno facendo è molto più semplice: stanno ordinando di smettere di diagnosticare casi e di riportare nuovi casi di infezione. Dalla notte a giorno i nuovi casi sono arrivati a zero”. A supporto della sua tesi, Mosher cita due casi: “Ci sono prove che amministrazioni locali hanno deliberatamente sottostimato il numero dei pazienti risultati positivi al virus. Non è chiaro se lo facciano su impulso di una direttiva nazionale o, semplicemente, per conformarsi alla narrazione ufficiale”. Inoltre: “Almeno un governo di provincia sta chiedendo a tutti gli uffici amministrativi di distruggere tutti i ‘dati e documenti’ che possano aver ricevuto riguardanti l’epidemia”.
La Cina comunista, dunque, starebbe gonfiando i suoi successi per ottenere più credito all’estero, anche per far dimenticare le sue tremende responsabilità per lo scoppio e la diffusione dell’epidemia da Wuhan al resto del mondo. Secondo uno studio dell’Università di Southampton, se le autorità cinesi fossero intervenute drasticamente per contenere il virus tre settimane prima, il numero di casi si sarebbe ridotto del 95%. Va ricordato, invece, che le autorità si sono mosse con almeno un mese di ritardo rispetto alla segnalazione dei primi casi polmonite causata da un virus “simile alla Sars” e hanno tenuto coperte tutte le informazioni fino all’ultima settimana di gennaio.
Se poi la Cina fosse davvero un modello, perché sta allontanando un gran numero di giornalisti stranieri, americani in particolar modo? Perché dopo aver ritirato gli accrediti a tre reporter del Wall Street Journal, ha annunciato l’espulsione di giornalisti del New York Times, Washington Post e Voice of America. La causa, in teoria, è una risposta alle nuove regole, imposte da Washington, che chiedono agli organi di informazione cinesi (di Stato) di registrarsi come enti diplomatici. Ma reciprocità vorrebbe un regolamento analogo anche per le testate americane: solo Voice of America è “pubblica” ed equiparabile agli organi di stampa cinesi negli Usa, le altre sono testate indipendenti. Quindi non è solo una richieste di registrarsi come ente diplomatico, è una forma di censura. E il motivo potrebbe essere proprio la loro narrazione dell’epidemia, che contrasta con quella che il Partito vuol promuovere nel mondo.