I Medici Senza Frontiere lasciano la Somalia
Dopo 22 anni di aiuti alla popolazione locale, dopo aver sopportato le durezze di un'infinita guerra civile, Medici Senza Frontiere deve abbandonare la Somalia. Perché i suoi volontari sono attaccati. E perché le autorità sono corrotte.
Il 14 agosto Medici senza frontiere, Msf, ha annunciato la chiusura di tutti i suoi progetti in Somalia, inclusi quelli nella capitale Mogadiscio. Il fatto è di una gravità inaudita. Msf, la più grande organizzazione medico-umanitaria del mondo, opera in oltre 60 Paesi, prestando assistenza a popolazioni minacciate da guerre, epidemie, catastrofi naturali: accettata e al riparo da violenze poiché mantiene un atteggiamento neutrale in caso di conflitti armati, basando i propri interventi unicamente sui bisogni della popolazione, in conformità con quanto dichiarato nella sua carta di fondazione.
In Somalia ha lavorato ininterrottamente nei 22 terribili anni di guerra civile seguiti alla caduta del regime di Siad Barre nel 1991, affrontando, per il bene delle popolazioni in condizioni estreme di bisogno, dei livelli di rischio senza precedenti. La decisione, adesso, di abbandonare il Paese, senza dubbio a lungo ponderata, è il risultato – come si può leggere sul sito web dell’organizzazione – «dei gravi attacchi al proprio personale in un contesto in cui gruppi armati e autorità civili sempre più sostengono, tollerano o assolvono l’uccisione, l’aggressione e il sequestro degli operatori umanitari».
Una frase successiva è ancora più esplicita nel denunciare i responsabili degli abusi e delle manipolazioni dell’azione umanitaria che hanno fatto venir meno le condizioni essenziali di sicurezza: «in alcuni casi gli stessi attori – soprattutto ma non esclusivamente nel centro sud della Somalia (controllato in gran parte dal movimento antigovernativo Al Shabaab, collegato ad Al Qaeda, n.d.a) – con i quali Msf deve negoziare le garanzie minime per il rispetto della sua missione medico umanitaria hanno svolto un ruolo negli abusi contro il personale di Msf attraverso il coinvolgimento diretto o la tacita approvazione».
Tutto questo succede in un Paese che da un anno a questa parte ci viene presentato come del tutto rinnovato per essersi lasciato alle spalle guerra e instabilità politica. Con un anno di ritardo rispetto alla road map concordata con i Paesi donatori, a partire dall’agosto del 2012 la Somalia – così ci è stato detto – ha infine completato la transizione democratica dandosi una costituzione, un parlamento e un governo mentre le truppe inviate dall’Etiopia e dall’Unione Africana liberavano la capitale e le principali città dagli Al Shabaab. Di qui gli appelli agli investitori privati stranieri a fidarsi, a portare capitali, e, lo scorso maggio, una conferenza internazionale a Londra per stanziare i finanziamenti milionari chiesti dalle autorità somale per avviare le necessarie riforme.
In realtà la costituzione adottata il 1° agosto dall’Assemblea costituente – un evento accolto dall’Onu come “una conquista storica” – è stata redatta frettolosamente sulla base di un canovaccio fornito dall’Onu stessa e attende, per divenire definitiva, un referendum popolare che nessuno sa quando potrà essere convocato: il territorio nazionale è tutt’altro che pacificato e sicuro e, prima ancora, manca un registro degli aventi diritto (impensabile tentare un censimento della popolazione), ragione per cui neanche il parlamento è stato eletto dal popolo, ma come in passato, a partire dal 2004, dai capi dei clan e dei sottoclan che da due decenni si contendono il potere.
Non basta. Continui scandali legati alla corruzione e denunce di fondi offerti dalla cooperazione internazionale svaniti nel nulla minano la credibilità delle istituzioni. Proprio mentre si definivano le tappe conclusive della “transizione democratica”, un rapporto realizzato nel luglio del 2012 dal Gruppo di monitoraggio sulla Somalia per conto dell’Onu rivelava: «su 10 dollari consegnati dalla comunità internazionale al governo somalo per la ricostruzione e il sostegno alla popolazione 7 non arrivano mai nelle casse dello stato». «Nulla viene fatto dalle istituzioni somale – si legge nel rapporto – senza che qualcuno pronunci la frase: ‘io che cosa ci guadagno?’». Due mesi prima un rapporto della Banca Mondiale riferiva che tra il 2010 e il 2011 si era persa traccia del 68% degli aiuti internazionali al governo somalo. Lo scandalo più recente risale allo scorso luglio quando un rapporto sempre dell’Onu ha documentato una rete di corruzione e clientelismo all’interno della stessa Banca Centrale della Somalia.
Si spiega così la situazione che ha indotto Msf alla resa. La portata del danno per la popolazione somala è immenso: nel 2012 Msf ha effettuato più di 624.000 visite mediche, ha ricoverato 41.000 pazienti negli ospedali, ha curato 30.090 bambini malnutriti, ha vaccinato 58.620 persone e ha fatto nascere 7.300 bambini. I suoi interventi, affidati a oltre 1.500 persone, includevano anche la fornitura di acqua potabile e di generi di prima necessità. Il venir meno dell’aiuto umanitario – già la maggior parte delle altre organizzazioni non governative sono state costrette a lasciare il paese – lascia centinaia di migliaia di somali privi di assistenza con conseguenze catastrofiche. Basti pensare che, dichiarata sconfitta sei anni fa, la poliomielite è ricomparsa lo scorso anno a causa dell’impossibilità di vaccinare i bambini nelle regioni del paese che l’ONU classifica tra gli ambienti più difficili e pericolosi al mondo per gli operatori umanitari. Nel 2012 i casi accertati sono stati 223. Dall’inizio dell’anno in Somalia e nel vicino Kenya, dove sorgono i campi profughi popolati dai somali in fuga, sono 181, la peggiore epidemia in corso in un paese non endemico.