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abuso d'ufficio

I “manettari” hanno perso, la Consulta promuove la riforma Nordio

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La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità relativa all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Una decisione che chiude una pagina giuridica e politica lunga e travagliata, ma che allo stesso tempo ne apre molte altre sul piano culturale e istituzionale.

Politica 10_05_2025

Con una decisione tanto attesa quanto controversa, l’8 maggio 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità relativa all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, sancendo che la scelta legislativa voluta dal governo Meloni non è in contrasto con la Costituzione né con gli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione, nota come Convenzione di Merida. Una decisione che chiude una pagina giuridica e politica lunga e travagliata, ma che allo stesso tempo ne apre molte altre sul piano culturale e istituzionale.

L’articolo 323 del codice penale è stato ufficialmente cancellato dalla legge 114/2024, in una riforma fortemente voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e sostenuta dalla maggioranza di governo insieme ai partiti di centro come Azione e Italia Viva, mentre Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra hanno votato contro. Non si trattava però di una novità assoluta: da oltre trent’anni, l’abuso d’ufficio veniva sistematicamente riformulato, ridefinito e “ristretto” per cercare di superare le innumerevoli critiche che lo vedevano come un reato troppo vago, interpretabile in modo discrezionale e pericolosamente manipolabile sul piano politico e giudiziario. In effetti, i dati statistici mostravano un paradosso ormai strutturale: centinaia di procedimenti ogni anno, ma pochissime condanne definitive. La sproporzione tra l’impatto distruttivo dell’inchiesta sull’amministratore pubblico – spesso costretto a subire anni di indagini, gogna mediatica e paralisi operativa – e l’effettivo accertamento di un illecito penale era diventata la prova vivente di un problema sistemico.

Il reato di abuso d’ufficio, nella sua formulazione più recente, puniva il pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle proprie funzioni, violasse norme di legge o di regolamento per arrecare un danno ingiusto a terzi o procurarsi un indebito vantaggio patrimoniale. La sua funzione dichiarata era quella di difendere l’imparzialità e la legalità della pubblica amministrazione. Nella pratica, tuttavia, era diventato uno strumento che troppo spesso veniva utilizzato in modo generico e preventivo, in assenza di reati più concreti, come leva per aprire indagini che, pur non portando a sentenze di condanna, bastavano a intimidire sindaci, dirigenti, assessori e funzionari pubblici. In questo senso, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. non è semplicemente un atto tecnico, ma un cambiamento di paradigma: la fine di un’epoca fondata sulla cultura del sospetto, su una giustizia percepita come strumento di pressione anziché di garanzia.

Non è un caso che il fronte dei critici dell’abrogazione abbia immediatamente evocato la possibilità di un “vuoto normativo” e il rischio di favorire l’impunità nella pubblica amministrazione. Secondo questa visione, l’abuso d’ufficio era un presidio essenziale contro il malaffare, un’arma di dissuasione contro la tentazione del potere di piegare l’interesse pubblico a fini privati. Tuttavia, come ha evidenziato la stessa Corte Costituzionale, tale visione non trova fondamento giuridico né nella nostra Carta né nella normativa internazionale. La Consulta ha infatti accolto come ammissibili soltanto le questioni legate agli obblighi della Convenzione di Merida, ma le ha poi rigettate nel merito: il trattato del 2003, ratificato dall’Italia nel 2009, invita gli Stati a “esaminare” l’introduzione di misure per reprimere l’abuso di funzione, ma non impone né la creazione né il mantenimento obbligatorio di una fattispecie penale specifica. Dunque, nessun vincolo costituzionale è stato violato. Il legislatore ha agito nell’ambito della propria discrezionalità politica, esercitando un potere che la Corte ha ritenuto pienamente legittimo.

Il punto vero, in fondo, non è solo giuridico ma profondamente politico e culturale. I critici dell’abrogazione si muovono spesso su un terreno ideologico, quello del giustizialismo militante che ha segnato gran parte della storia italiana recente. Una cultura che diffida della classe dirigente, che presume la colpa prima ancora dell’accertamento, e che alimenta un clima in cui firmare un atto amministrativo diventa un azzardo e non un dovere.

In questo scenario, i “manettari” – coloro che concepiscono la magistratura come una sorta di contropotere etico – hanno subito una sconfitta storica. Non tanto perché l’abuso d’ufficio fosse la panacea contro la corruzione, ma perché la sua abrogazione rappresenta un colpo al loro modo di intendere il rapporto tra potere, diritto e garanzie. A vincere, in questa partita, sono stati invece i difensori della civiltà giuridica, quelli che difendono il principio di legalità, la chiarezza delle norme, la presunzione di innocenza, e soprattutto la necessità che le responsabilità siano definite in modo certo, non sulla base di interpretazioni estensive o di suggestioni mediatiche.

È però importante precisare che l’abolizione dell’abuso d’ufficio non significa affatto impunità. Esistono nel codice penale numerosi strumenti per colpire i comportamenti realmente illeciti, dalla corruzione al peculato, dalla concussione alla turbativa d’asta. Inoltre, contestualmente alla cancellazione dell’articolo 323, il governo ha introdotto un nuovo reato: quello di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, previsto dal nuovo articolo 314-bis, che punisce con pene fino a tre anni i pubblici ufficiali che usano beni o fondi pubblici per scopi diversi da quelli per cui li hanno ricevuti. Si tratta di un intervento normativo che intende colmare eventuali lacune sanzionatorie, ma senza ricorrere alla logica punitiva generica che aveva trasformato l’abuso d’ufficio in una minaccia permanente.

In attesa delle motivazioni ufficiali della sentenza – attese nelle prossime settimane – la scelta della Corte Costituzionale segna un punto fermo: non si può governare nel terrore di essere indagati per ogni atto discrezionale, né si può costruire una democrazia liberale su un sospetto permanente verso chi esercita funzioni pubbliche. Per trent’anni l’abuso d’ufficio è stato un alibi e un’arma: un alibi per un sistema giudiziario incapace di distinguere tra responsabilità politica e penale, e un’arma per chi ha usato la magistratura come leva di moralizzazione coercitiva. L’Italia che ne esce oggi, pur con tutte le sue contraddizioni, prova finalmente a dire che la libertà di decidere non è una colpa, e che la garanzia dei diritti non è un ostacolo alla giustizia, ma la sua condizione imprescindibile.