L'EDITORIALE
I furbetti della moneta unica
Pur riconoscendo i limiti e le ambiguità delle agenzie di rating, il Portogallo - dopo la Grecia - paga il tentativo di godere dei vantaggi dell'euro senza aver adottato comportamenti coerenti. E ora potrebbe toccare a Spagna e Italia.
Editoriali
07_07_2011
Ci sono due modi opposti, ma paradossalmente entrambi corretti, di guardare al giudizio pesantemente negativo delle agenzie di rating che in un mercoledì di inizio di luglio è caduto sul debito portoghese. Il primo è quello di dissociazione e protesta espresso dalla Commissione europea, un giudizio particolarmente forte anche perché il presidente Manuel Barroso ha visto messa in causa la credibilità del proprio paese.
Il secondo è quello che, pur a malincuore, prende atto che qualche problema c’è davvero nella gestione del debito pubblico di Atene, di Lisbona e in prospettiva anche di Madrid e di Roma.
Sul primo punto Barroso ha espresso giudizi molto chiari e fondati: «In assenza di fatti nuovi che potrebbero giustificare la nuova valutazione - ha affermato - le decisioni di un'agenzia di rating non danno maggiore chiarezza, anzi aggiungono un elemento speculativo alla situazione». Le agenzie - ha sottolineato - «sono un attore del mercato per questo non sono immuni dai cicli dei mercati e dagli errori che ne derivano». Sulla stessa linea si è espresso comunque anche il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble sostenendo che "abbiamo bisogno di rompere l’oligopolio delle agenzie di rating". In questa prospettiva il punto di fondo è proprio questo: le agenzie di rating non sono per nulla un organismo indipendente, al di sopra delle parti, dotate di grandi poteri di indagine, libere di esprimere giudizi nel superiore interesse della trasparenza del mercato. Tutt’altro: sono possedute da società finanziarie che operano direttamente sui mercati, sono formate da pochi analisti economici immersi nei computer dei loro uffici di New York, hanno spesso sbagliato le loro previsioni anche se, per gli elementari meccanismi della finanza, un loro giudizio costituisce di per se stesso un passo nella direzione indicata.
Il caso del Portogallo è emblematico: il giudizio negativo di Moody’s ha già in poche ore avuto l’effetto di innalzare il premio di rischio sui titoli portoghesi con i risultato di rendere più difficile e oneroso per Lisbona il necessario ricorso ai mercati finanziari per rinnovare quegli stessi titoli. Quando si versa benzina sul fuoco non ci si può sorprendere se il fuoco riprende vigore.
Il potere delle agenzie di rating è quindi eccessivamente elevato, anche perché sono nello stesso tempo arbitro e giocatore, con una credibilità che è stata conquistata negli anni delle vacche grasse quando i loro giudizi positivi facevano comodo a tutti. Ora che il vento è cambiato appare tuttavia difficile smontare una struttura di potere finanziario che ha assunto una funzione ben superiore a quella di una semplice consulenza: molti grandi fondi di investimento hanno nei contratti con i sottoscrittori l’obbligo di investire in titoli che abbiano un rating elevato (e quindi a vendere questi stessi titoli se il rating scende oltre una certa soglia).
Resta comunque il fatto, come dicevamo all’inizio, che qualche ragione nel caso del Portogallo, e ancora più della Grecia, le agenzie di rating l’hanno. Perché questi Paesi, e in qualche modo anche l’Italia, hanno sperato di poter cogliere i vantaggi della moneta unica europea (stabilità monetaria, bassi tassi di interesse, libera circolazione dei capitali) senza adottare comportamenti coerenti con gli altri paesi per il controllo dei conti pubblici e per sostenere, con le riforme, la crescita delle singole economie. E così non solo sono saliti i disavanzi pubblici, ma soprattutto non è cresciuta la competitività delle singole economie che hanno accumulato anche sensibili deficit nei rapporti con l’estero. Alla politica monetaria unica non si è accompagnata una politica economica e fiscale altrettanto unitaria.
Il vantaggio della moneta unica è diventato quello del credito facile. Ed è stato dimenticato quell’aiuto reciproco a sostenere le riforme con una coesione solidale che avrebbe dovuto far si che l’Europa diventasse l’economia più competitiva del mondo. Ma la strategia varata con grande entusiasmo nel Consiglio straordinario di Lisbona del 2000 è stata rapidamente consegnata ai libri di storia.
La crisi attuale appare così la strada in discesa in cui prima o poi finiscono tutti i matrimoni d’interesse: dove manca quella promessa fondamentale di fedeltà… nella buona e nella cattiva sorte.