I frutti avvelenati della democrazia africana
In Africa nel giro di pochi giorni è fallito un colpo di stato militare (in Gabon) e sono stati democraticamente eletti tre nuovi capi di stato (Congo RD, Puntland e Madagascar). Ma sono solo apparentemente buone notizie, perché le democrazie africane sono facciate dietro cui si nascondo realtà di corruzione e violenza.
In Africa nel giro di pochi giorni è fallito un colpo di stato militare e sono stati democraticamente eletti tre nuovi capi di stato. Il golpe è stato tentato in Gabon il 7 gennaio approfittando del fatto che il presidente Ali Bongo da settimane è all’estero, in Marocco, a ricuperare le forze dopo un attacco cardiaco. I nuovi presidenti sono Felix Tshisekedi, vincitore delle elezioni del 30 dicembre nella Repubblica democratica del Congo (Zaire sotto la dittatura di Mobuto Sese Seku durata 32 anni), Siad Abdullahi Deni, eletto dal parlamento dello stato semiautonomo del Puntland il 9 gennaio, e Andry Rajoelina (Madagascar), al secondo mandato, primo al ballottaggio del 19 dicembre 2018, vittoria confermata dalla Corte costituzionale l’8 gennaio.
All’apparenza sembrano buone notizie, segno del consolidarsi delle istituzioni democratiche, troppo spesso in Africa meri simulacri adottati per dissimulare corruzione, mal governo, repressione del dissenso, discriminazioni etniche e sessuali: e ben vengano, anzi, gli osservatori internazionali inviati da paesi occidentali che, pur sempre rilevando irregolarità e brogli, alla fine dichiarano il voto sufficientemente “free and fair”, libero e corretto, legittimando i vincitori al livello internazionale e, nel caso, consentendo di scaricare su Europa e Stati Uniti la colpa di aver “insediato” dei leader inaffidabili.
Però, anche se un colpo di stato non è mai una buona cosa, motivi di insofferenza non mancano in Gabon. Ali Bongo detiene la carica di capo di stato dal 2009 avendola ereditata dal padre Omar deceduto quell’anno il quale a sua volta l’aveva retta per 42 anni. Da oltre mezzo secolo la famiglia Bongo è al potere e ne ha approfittato per dotarsi di un solido patrimonio finanziario e immobiliare.
Di Siad Abdullahi Deni, ex ministro per la Pianificazione, non si conoscono grandi scandali, ma Andry Rajoelina, ex disc jockey, è diventato presidente la prima volta nel 2009 con un colpo di stato, dopo aver dato pessima prova di sé per due anni come sindaco della capitale malgascia, Antananarivo. Insediatosi, si è sbarazzato dei suoi principali oppositori e ha governato infischiandosene del biasimo internazionale fino alle presidenziali del 2013, vinte da Hery Rajaonarimampianina. Sono precedenti che non fanno ben sperare e d’altra parte il paese da quando è indipendente non ha mai avuto un capo di stato responsabile.
Per finire, Felix Tshisekedi, figlio di un grande leader storico dell’opposizione, Etienne, deceduto nel 2017, dal quale ha ereditato cariche politiche, utili relazioni e un sostanzioso patrimonio personale. Il 10 gennaio Felix è stato “provvisoriamente proclamato presidente eletto” dalla Commissione elettorale, una formula davvero inconsueta, forse necessaria dal momento che oltre un milione di aventi diritto voteranno a marzo non essendo stato possibile aprire i seggi in alcune province orientali dove si combatte e dove è in corso una epidemia di Ebola.
Ma “provvisorio” potrebbe assumere un altro significato. La contestazione del voto è stata infatti immediata, preparata nei giorni precedenti dalla valanga di denunce da tutto il paese di irregolarità e disfunzioni e, con il passare dei giorni, dalla lentezza nel raccogliere i dati e dal rinvio della pubblicazione dell’esito che era stata promessa entro il 6 gennaio: segni questi sempre inquietanti perché lentezza e rinvii servono a manipolare il voto, far scomparire delle schede e farne apparire altre, attività a cui si dedicano in verità tutti i candidati che ne hanno i mezzi, ma che riesce meglio a quelli espressione dei partiti di governo che quindi controllano i ministeri e spesso anche la Corte costituzionale e la stessa commissione elettorale avendone nominato gran parte dei componenti.
Adesso l’attenzione degli osservatori si concentra su alcuni fatti anch’essi inconsueti. Il primo riguarda le reazioni dei due candidati sconfitti: Martin Fayulu, secondo con 6,4 milioni di voti (600.000 in meno del vincitore) e Emmanuel Ramazani Shadary, ex ministro dell’interno, fedele al presidente Joseph Kabila, di fatto il suo candidato, non avendo potuto Kabila concorrere alla carica già ricoperta due volte (per questo il presidente aveva rimandato per due anni il voto nella speranza di trovare un espediente per conservare il potere, ereditato alla morte del padre Laurent Désiré, vittima di un attentato nel 2001).
Fayulu come prevedibile ha respinto il risultato: “Non c’è nulla di vero”, ha detto, nei dati riportati dalla Commissione elettorale e ha parlato di “colpo di stato elettorale”: “il popolo del Congo non accetterà mai una simile truffa. Felix Tshisekedi non può aver avuto sette milioni di voti. Dove li avrebbe presi?”. Invece il candidato del presidente e del partito di governo, il grande favorito inaspettatamente arrivato terzo, altrettanto inaspettatamente ha ammesso la sconfitta commentando tramite un suo portavoce: “il popolo del Congo ha scelto e la democrazia ha vinto”. Da parte sua Tshisekedi, presentandosi ai sostenitori nel quartier generale del suo partito, l’ Unione per la democrazia e il progresso sociale, ha detto che Kabila non deve più essere visto come un rivale: “rendo omaggio al presidente; da oggi non dobbiamo più considerarlo un avversario, ma piuttosto un partner nel cambiamento democratico del nostro paese”.
Il sospetto in effetti fondato è che Tshisekedi e Kabila abbiano stipulato un patto segreto preelettorale di condivisione del potere: una alleanza che darebbe a Tshisekedi una maggioranza più solida e permetterebbe al presidente costretto a cedere la carica di conservare un importante ruolo politico, a tutela delle redditizie attività economiche e finanziarie in cui lui e la sua famiglia hanno investito un patrimonio miliardario accumulato in 18 anni.
Ancora simulacri di democrazia dunque, che coprono interessi privati, aspirazioni e progetti politici sintetizzati nella formula che dà il titolo a un noto libro della giornalista Michela Wong, “It’s our turn to eat”, tocca a noi mangiare adesso.
Qualcun altro però non crede che Tshisekedi abbia avuto così tanti voti. La Conferenza episcopale congolese, che tanto si è prodigata nei due anni di attesa delle elezioni per convincere la popolazione alla calma e Kabila a rispettare le regole democratiche e i diritti dei suoi connazionali, ha fatto una dichiarazione, mentre si era in attesa dei risultati, che suonava come un ammonimento. Ha detto di conoscere il nome del vincitore grazie ai dati riportati dai propri osservatori, 40.000 assegnati ai seggi di tutto il paese. Poche ore dopo l’annuncio della Commissione elettorale la Chiesa cattolica ha perciò fatto sapere di respingere i risultati perché li ritiene falsi, del tutto difformi da quelli raccolti grazie agli osservatori elettorali. Non ha fatto nomi, ma dei diplomatici coperti da anonimato hanno riferito all’agenzia di stampa Reuters che i conteggi della Chiesa davano vincente Fayulu.
“Dunque la democrazia ha trionfato” ha detto Joseph Kabila. Viene in mente suo padre Laurent Désiré: rideva senza ritegno mentre, durante una visita in Congo nel 1998, un’accigliatissima Madeleine Albright, allora segretario di Stato americano, gli chiedeva conto delle violazioni dei diritti umani, delle quali il suo governo era accusato, e di un processo democratico promesso e mai avviato. Sempre ridendo, le aveva risposto che realizzare la democrazia costa: “mandateci del denaro e allora ne riparliamo”. E poi aveva concluso la conferenza stampa esclamando: “non ho forse ribattezzato lo Zaire Repubblica democratica del Congo? E dunque, viva la democrazia!”
E qualcuno crede che sia semplice “aiutarli a casa loro”.