I draghi e l'antidiscriminazione
Ho visto per caso "Age of the Dragons", un film che è la trasposizione di Moby Dick in chiave fantasy, ma solo per permettere la presenza di un attore nero e di una donna. In omaggio al politicamente corretto che è la cifra di Hollywood.
Imbattutomi, mentre smanettavo col telecomando, in un film fantasy in seconda serata, mi sono incuriosito. E non tanto per il film, piuttosto sciapo e mediocre. Trattavasi di Age of the Dragons (titolo non tradotto) del 2011 con Danny Glover, trasmesso su Rai4 il 23 gennaio u.s. Non era altro che la trasposizione paro paro di Moby Dick in un’era fantasy, col capitano Achab, Ismaele e un drago bianco al posto della balena di Melville.
La novità, a parte l’ambientazione, stava nel fatto che a impersonare il capitano ossessionato dal «mostro» c’era un attore nero, Danny Glover, famoso per il suo ruolo di spalla a Mel Gibson nei film della serie Arma letale. L’altra novità era una donna nell’equipaggio. Chi ha letto Moby Dick sa che sulla nave Pequod c’erano solo maschi, dato che la vicenda si svolgeva nell’America puritana d’inizio Ottocento. E che, anzi, il baleniere maori Queequeg fu accettato a bordo solo per la sua abilità come ramponiere. Dunque, per trasporre Moby Dick sullo schermo, o si faceva un remake del vecchio film di John Huston con Gregory Peck o lo si ambientava in un altrove fantastico.
La prima soluzione avrebbe cozzato contro i canoni della moderna political correctness, perché le navi americane ottocentesche ammettevano i neri al massimo come mozzi (se non come schiavi) e, di donne, neanche parlarne. Ecco allora la scelta obbligata.
Hollywood, infatti, è stata la prima ad adeguarsi entusiasticamente all’Affermative Action con cui il governo federale statunitense stabilì nel 1960 le «quote» da riservare alle «minoranze storicamente discriminate» nei vari settori dell’occupazione, dell’istruzione, dell’amministrazione eccetera. La cosa finì col generare situazioni al limite del grottesco e una serie infinita di contenziosi a causa della conseguente «discriminazione all’incontrario» che non di rado ne scaturiva. In un film comico degli anni Settanta era narrata la storia di uno studente che, non riuscendo a farsi ammettere all’università, si era dipinto il volto e si era finto nero per accedere alle quote riservate alle minoranze.
Film comici a parte, è verissimo che le regole di Hollywood stabiliscono che, nei film, per ogni attore maschio e bianco ce ne siano almeno tre altri appartenenti alle «minoranze». E, se il film è d’azione, questi ultimi non possano venire uccisi entro i primi due minuti di narrazione. Così, ecco gli sceneggiatori hollywoodiani costretti a spremere il cervello per creare situazioni in cui infilare neri, donne, ispanici, asiatici senza far perdere di coerenza le trame.
E’ il motivo per cui trovate un attore nero a interpretare Heimdall, il guardiano di Bifrost (il Ponte dell’Arcobaleno che dà accesso ad Asgard), nei due film di Thor, quantunque si tratti di una saga tratta dalla mitologia scandinava. Forse accortosi di avere esagerato, il regista del primo film, Kenneth Branagh, decise di dotare l’attore di lenti a contatto verde chiaro, ovviamente mantenute nel secondo.
A complicare le cose per gli sceneggiatori hollywoodiani è arrivata l’offensiva planetaria Lgbt e l’ossessione obamiana per le nozze omo. Come faranno a introdurre tutte queste nuove minoranze e a salvaguardare le vecchie? Vabbe', fatti loro. Si considerino fortunati che negli Usa non ci sono rom, sinti & nomadi vari, altrimenti l’uscita di senno era sicura. Sì, però – voi direte - hanno gli indiani, pardon: «native americans». Informatevi: li avevano. Ci hanno pensato i loro padri, nell’Ottocento, a ridimensionare il problema. I pochi pellerossa rimasti non si sono praticamente mai cimentati come attori (tutt’al più come comparse), tanto che lo stesso John Ford doveva ricorrere a bianchi truccati per i suoi celebri film western.