I doni dei Re Magi e l’oro in cucina
I tre doni dei Magi trasmettono la verità su chi fosse quel Bambino nella grotta, perché segno della sua regalità (l’oro), divinità (l’incenso) e futura Passione e sepoltura (la mirra). Di essi, uno è anche commestibile: l’oro…
- LA RICETTA: RISO, ORO E ZAFFERANO
Uno straordinario olio su tavola dipinto nel 1504 da Albrecht Dürer (Collezione degli Uffizi), intitolato L’adorazione dei Magi, ci mostra un Gesù Bambino sulle ginocchia della Madre, che riceve i doni dei Re Magi.
Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. «Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. […] Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (cfr. Matteo 2:1-12).
Anche se nel Vangelo di Matteo non troviamo traccia né del numero dei Re Magi e nemmeno dei loro nomi, trasmessici dalla tradizione, sono i doni che svegliano la nostra curiosità: oro, incenso e mirra. L’oro rivela che il neonato nella mangiatoia è in realtà un re, un Dio che decide di farsi uomo attraverso la forma umana più vulnerabile: quella di un bambino. L’incenso, simbolo dell’Incarnazione, viene estratto dalla resina secreta da una pianta chiamata Boswellia sacra: è il profumo che si utilizza nella liturgia, ma in Oriente è sempre stato utilizzato (fino ai giorni nostri) per profumare e purificare l’aria.
Il terzo dono, la mirra, è forse il più misterioso. Si tratta di una gommoresina estratta dalla Commiphora myrrha, pianta tipica di penisola arabica, Mesopotamia e India: sono le stesse zone dove cresce anche la Boswellia sacra, dalla quale si estrae l’incenso, come abbiamo visto sopra. Al tempo dei faraoni la mirra veniva utilizzata nella mummificazione e, per tutte le civiltà dei tempi antichi, è sempre stata una componente fondamentale negli oli e nei profumi utilizzati per l'unzione del corpo del defunto. Perciò è evidente che è un simbolo del fatto che Gesù era venuto sulla terra per morire. Isaia, d’altronde, aveva predetto che qualcuno avrebbe redento il popolo di Dio attraverso la sofferenza e la morte: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte” (Isaia 53:8).
In realtà, i tre doni dei Magi trasmettono la vera rivelazione sull’identità di questo bambino e di ciò che era destinato a fare. Dei tre doni, solo uno è commestibile: l’oro. Fin dai tempi più remoti, il pasto, nella sua forma più spettacolare - il banchetto - era un mezzo di elevazione sociale, di dimostrazione di ricchezza e di affermazione del potere: e nulla poteva simboleggiarli meglio dell’oro.
L’abitudine di usare l’oro per arricchire i piatti attraversa i confini e le epoche: l’antico Egitto, il Giappone imperiale, l’antica Roma, le corti signorili del Medioevo e del Rinascimento e perfino i grandi chef dei nostri giorni usano questo “termometro sociale” per esaltare l’opulenza e lo sfarzo della tavola, per il diletto di illustri ospiti.
Ma sia l’oro che l’argento sono commestibili a condizione di essere usati in quantità minime. Non avendo né sapore, né odore, sono sempre stati utilizzati a mero scopo scenografico. Nella Roma antica i cuochi delle case nobili rivaleggiavano per immaginazione e “mascheravano” le pietanze, per lo stupore degli ospiti: una preparazione sembrava una cosa ma appena la si assaggiava si capiva che era una cosa totalmente differente. (Purtroppo, questa ossessione di voler soddisfare l’occhio oltre che il palato, in qualche caso, portava anche all’utilizzo di materiali nocivi: non era insolita la presenza a tavola di pesci ricoperti di vernici d’oro e d’argento, con grande pericolo per la salute dei commensali). Il Medioevo, così come in seguito il Rinascimento, sono epoche dove l'oro è sinonimo di lusso e sfarzo, sia nella quantità che nella presentazione delle vivande. Non è più solo il valore in battaglia che conferisce prestigio, ma anche le capacità di creare contatti prestigiosi relazionali, di fondare alleanze politiche e sociali, attraverso il cibo, radunando nelle proprie corti le persone giuste e servendo loro cibi raffinati e nelle forme più appariscenti.
Data al 1368 la cronaca delle nozze di Violante Visconti, il cui padre, il duca milanese Galeazzo Visconti, ha offerto agli invitati un banchetto di sedici portate quasi interamente ricoperte d'oro. (“Storia di Milano” di Bernardino Corio, edito da Francesco Colombo nel 1855). Ritroviamo l’usanza di coprire le pietanze d’oro in alcuni ricettari d’epoca, tra cui quello di Maestro Martino di metà XV secolo: “Per fare pavoni vestiti con tutte le sue penne che cocto parà vivo et butte foco pel becco... Et per più magnificenza, quando il pavone è cotto, si pò indorare con fogli d'oro battuto et sopra lo ditto oro porre la sua pelle, la quale vole essere inbrattata dal canto dentro con bone spetie. Et simelmente si po fare de fasciani, gruve, oche et altri ocelli, o capponi o pollastri.” Altre ricette sono presenti anche nella famosa “Opera” di Bartolomeo Scappi (cuoco di Pio V) del 1570, dove l’autore dà indicazioni specifiche per impreziosire una “torta bianca comune” aggiungendo “oro et argento battuto”.
Non possiamo non ricordare il magnifico banchetto di nozze tra Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, avvenuto a Tortona, nel 1489 e menzionato in diversi scritti. Uno tra tutti va specialmente menzionato: si tratta di un incunabolo lombardo, un poema in lingua volgare non firmato, ma scritto da Baldassare Taccone, amico di Leonardo Da Vinci, che del banchetto è stato cerimoniere e regista. Il poema è intitolato "Ordine de le Imbandisone" (l’originale è nella collezione di chi scrive); si parla di cosa venne servito agli ospiti e presenta, tra le varie vivande, un “vitello inargentato” (decorato cioè di una foglia di argento) e un agnello interamente ricoperto di foglia d’oro.
Dopo il Rinascimento l’utilizzo dell’oro nell’alimentazione è poco documentato. Dobbiamo aspettare il XX secolo per ritrovarlo codificato in una ricetta: fu merito del leggendario chef milanese Gualtiero Marchesi, fondatore in Italia della “nouvelle cuisine” e creatore nel 1981 di uno straordinario “risotto oro e zafferano”. Il piatto ebbe il grande merito di fare tornare l’oro in cucina e con lui l’interesse per la storia della gastronomia. Questo risotto ha ispirato gli chef internazionali e non solo loro: molti produttori di cibo si sono cimentati nella creazione di cibi che hanno l’oro tra gli ingredienti.
Citiamo, per dovere di cronaca: Nusret Gökçe (in arte Salt Bae), macellaio e chef turco famoso per la sua bistecca interamente coperta d’oro; il dolce newyorkese Frozen Haute Chocolate, preparato con 28 tipologie di cacao molto costose, farcito con crema di oro e arricchito da 5 grammi di oro puro; la marmellata della casa inglese Duerr & Son, a base di arance di Siviglia e scaglie d’oro a 24 carati. Infine, non può mancare il pizzaiolo scozzese di origine italiana Domenico Crolla, che ha ideato in occasione di un pranzo-evento una pizza ricoperta di caviale, aragosta e oro purissimo. Costo di ogni pizza: 4.200 euro. Per fortuna l’intero ricavato della vendita andò in beneficenza.