I dilettanti: splendori e miserie della classe politica
Il panorama deprimente della classe politica attuale, con una vasta impreparazione facilitata dal sistema elettorale, spinge a un confronto con la tanto vituperata Prima Repubblica, da cui bisognerebbe almeno riprendere la rigorosità della formazione. Un saggio di Pino Pisicchio, che attualmente presiede alla Camera il Gruppo Misto.
Anche a costo di ricorrere a un’espressione alquanto abusata, è proprio il caso di dire che si stava meglio quando si stava peggio. Nella Prima Repubblica la politica manteneva un alto profilo e si ancorava a nobili visioni dell’uomo e della società, mentre oggi prevalgono superficialità e incompetenza nella gestione della cosa pubblica. La perversa mediatizzazione della politica ha prodotto l’eclissi della forma partito tradizionale, basata su momenti di confronto istituzionalizzati e su occasioni di stimolante coinvolgimento della base, ed ha alimentato il modello dei partiti “mediali”, che si nutrono di talk show e di sterili e fumosi chiacchiericci da salotto televisivo.
È difficile tenere lontana la sensazione che il Paese, ma soprattutto il suo ceto dirigente, sul versante delle istituzioni politiche sia stato invaso da una travolgente nube dilettantistica. Nell’immaginario collettivo si tende ad associare ai rappresentanti politici, oltre al giudizio di inaffidabilità morale, anche quello di incompetenza, a consolidamento dell’opinione che il “ceto” rappresenti per il Paese solo un inutile costo. Il commento più ricorrente, di fronte agli svarioni e alle defaillance di molti rappresentanti del popolo, è il seguente: «Non solo disonesti, ma anche inetti, impreparati, ignoranti». É l’apoteosi dell’antipolitica, forse favorita dalla scelta di sistemi elettorali inadatti ad alimentare il circuito virtuoso della partecipazione popolare alla vita pubblica e della selezione meritocratica della classe dirigente.
Ad affrontare questi e altri temi, con la perizia del ricercatore di diritto costituzionale e del politologo, ma anche con la freschezza del giornalista e l’esperienza del politico, è Pino Pisicchio, che attualmente presiede alla Camera dei deputati il Gruppo Misto e che ha recentemente dato alle stampe un agile e avvincente volume dal titolo provocatorio e illuminante: I dilettanti. Splendori e miserie della nuova classe politica (ed.Guerini e associati). La narrazione di Pisicchio è abilmente infarcita di riferimenti storico-politici, richiami alla dottrina, racconti di vita vissuta, opinioni maturate nel corso del suo intenso cammino parlamentare. Ne viene fuori lo spaccato, a tratti desolante, ma comunque aperto alla speranza, di una classe politica che non entusiasma le nuove generazioni, anche se utilizza la “scommessa generazionale” come ultima possibilità, dopo essersi impantanata nelle secche delle promesse disattese e dell’immobilismo gestionale.
Il presidente del Gruppo Misto alla Camera usa espressioni forti per descrivere il panorama attuale, lasciando intravvedere una sua profonda nostalgia per le “scuole di partito”, (Pci-Le Frattocchie, Dc-La Camilluccia), laboratori e pensatoi fecondi, animati da leader e militanti che percorrevano un cursus honorum scandito da tappe ben precise. Niente a che fare con le attuali summer school, poco più che sbiadite passerelle per personaggi in cerca d’autore. «Agli itinerari formativi delle scuole e della militanza», scrive Pisicchio, «si sostituisce l’ingresso “laterale”, attraverso un meccanismo di cooptazioni favorito dal sistema elettorale a lista bloccata, alimentato dall’impianto carismatico dell’attuale sistema». In altre parole, è il capo che sceglie, a prescindere dalle competenze, in base a un rapporto di prossimità e fedeltà. Stiamo vivendo, quindi, una «cessione di ogni prerogativa ai leader carismatici», anche a causa della persistenza di sistemi elettorali che, «soprattutto a livello di assemblee parlamentari, hanno confiscato la rappresentanza ai cittadini devolvendola ai capi». «Ormai», lamenta l’autore, «è appealing solo la svelta carriera e l’aggancio al carro vincente di un uomo solo al comando, quando fa premio sulla militanza, sullo studio, sulla passione e sulla voglia di cambiare il mondo solo il calcolo di quanto si può guadagnare da quella carica, avendo a modello lo schema di Tangentopoli».
Ad un ordinamento costituzionale pensato in una dimensione proporzionalistica, si è preteso di applicare un sistema maggioritario, che ne ha stravolto i connotati originari e il meccanismo di pesi e contrappesi, producendo un presidenzialismo strisciante. In questo quadro di declino dell’impegno civile e di perdita di peso del governo rappresentativo, i media, le immagini televisive, i titoli di giornale, la pervasività virale di internet sono chiamati a compensare il declino del protagonismo sociale dei cittadini.
Quanto alla moralità della politica, Pisicchio si sofferma sul rapporto tra danaro e politica e fa chiaramente capire come la pensa. «Qualcuno», si chiede, «ha memoria del fatto che la pubblica opinione italiana si interrogasse con l’aria morbosa di oggi sull’indennità parlamentare percepita da Moro e da Berlinguer? Forse che nell’Italia degli anni settanta i danari fossero meno importanti o le famiglie fossero più ricche di oggi? No certamente. Forse la risposta è molto più semplice: Moro e Berlinguer erano credibili, autorevoli, competenti, rispettabili e rispettati nel loro ruolo di rappresentanti del popolo e i cittadini accettavano di buon grado di rispecchiarsi in loro, riconoscendoli idonei allo svolgimento del ruolo che ricoprivano. Chi esprime quei ruoli oggi non suscita gli stessi sentimenti».
Nel volume si evidenziano anche alcune palesi contraddizioni dell’attuale sistema: da una parte si celebrano le primarie come strumento salvifico di partecipazione della base; dall’altra si combattono le preferenze elettorali come possibile fonte di corruzione. «L’uso e l’abuso delle elezioni primarie per la scelta della rappresentanza, coltivato nella recente cultura della sinistra riformista, ma presto dilagato negli ambiti politici più vari», si dice convinto Pisicchio, «offre solo l’illusione di un coinvolgimento di popolo nella scelta delle leadership. In realtà si tratta più che altro di strumenti di rafforzamento di chi è già insediato nel ruolo e cerca legittimazione per il suo esercizio o di chi, pur consapevole di non poter contare sul consenso maggioritario, partecipa per rivendicare un successivo posizionamento nella ripartizione di ruoli di governo o di partito. Si surrogano così congressi e procedimenti elettorali e si rimuove la mediazione della politica (partito, congresso, rappresentanza nelle assemblee )». Peraltro, come ricorda il Presidente del Gruppo Misto, il voto di preferenza «è curiosamente contrastato solo al livello parlamentare, mentre nessuno batte ciglio per le preferenze nelle sconfinate circoscrizioni europee, nelle regioni e nei comuni». Eppure la preferenza è un importante argine all’autoritarismo della lista bloccata.
Infine, l’autore accenna ad altre riforme possibili per restituire dignità alla politica e risvegliare vocazioni partecipative. Si vuole riformare il senato sul modello del Bundesrat tedesco e allora non si capisce perché non si possa mutuare dalle istituzioni teutoniche anche il modello di fondazioni politiche, luoghi di formazione del personale politico delle giovani generazioni. Naturale che Pisicchio concluda questa sua pregevole pubblicazione con uno dei suoi cavalli di battaglia: la regolamentazione delle lobbies e l’introduzione di obblighi di trasparenza nella rappresentanza degli interessi affinchè non prevalgano quelli più forti e più torbidi. Sarebbe un passo decisivo per puntellare la democrazia rendendo più limpidi ed equilibrati i processi decisionali. C’è da augurarsi che le ricette illustrate da Pisicchio in questo riuscitissimo volume possano alimentare un costruttivo dibattito tra tutte le forze politiche e ispirare le future scelte del legislatore.