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L'ANALISI

I conti in sospeso con il vecchio terrorista

La decisione di Francia e Gran Bretagna di affondare i colpi contro Gheddafi è un regolamento di conti unito a sogni di grandeur.

Attualità 21_03_2011
gheddafi
Il colonnello Muhammar Gheddafi è un vecchio terrorista. Dalla strage di Lockerbie del 1988 - l'esplosione di un aereo passeggeri sopra una cittadina scozzese, con 270 morti - a un'intera stagione di attacchi alla Francia, alcuni sventati all'ultimo minuto, non si contano gli attentati dietro a cui si è sospettata, e talora anche documentata, la presenza della mano di Gheddafi.
Il colonnello, però, non è solo un vecchio terrorista. È un terrorista vecchio. Si devono infatti distinguere nel mondo arabo un vecchio terrorismo che mescolava islam, anticolonialismo e marxismo e il nuovo terrorismo il cui tipo è al-Qa'ida, la cui logica obbedisce a un progetto preciso che fa riferimento esclusivamente all'ultrafondamentalismo islamico e al sogno di un nuovo califfato.

Del vecchio terrorismo Gheddafi è stato il punto di riferimento. Del nuovo - che alla fine aspira a rovesciare i regimi come il suo, considerati non abbastanza islamici e di oggettivo ostacolo al califfato - non si è mai fidato, e dopo l'11 settembre 2001 - certo anche per ragioni di convenienza - si è presentato come il suo nemico per eccellenza nel Nordafrica.

Le guerre in Afghanistan e in Iraq, qualunque cosa si pensi della loro gestione, avevano e hanno lo scopo di colpire basi o alleati del nuovo terrorismo. Le uniche prove davvero emerse contro Saddam Hussein riguardano precisamente i suoi rapporti con segmenti di al-Qa'ida. La guerra in Libia colpisce in Gheddafi un residuo del vecchio terrorismo diventato nemico di al-Qa'ida. Perché dunque lo si attacca oggi, quando non mancherebbero basi del nuovo terrorismo da colpire, dall'Iran alle regioni del Libano controllate dagli Hezbollah?

La spiegazione del presidente Obama - "L'Occidente non può restare indifferente quando un tiranno spara sui cittadini del suo Paese" - ovviamente ha un mero valore retorico. Nello stesso giorno dell'attacco alla Libia il tiranno che regna sullo Yemen, il presidente Ali Abdullah Saleh, ha fatto settantuno morti sparando sui dimostranti. Purtroppo, di tiranni che opprimono e massacrano i loro cittadini è pieno il mondo. Rispetto a quanto qualche libro coraggioso comincia a svelarci della Corea del Nord, la Libia sembra un villaggio vacanze.

Perché, dunque, Gheddafi? Per rispondere a questa domanda ci vogliono come al solito pazienza, studio e un po' di memoria storica. Propongo tre risposte, senza escludere che ve ne siano altre.

Prima risposta: alcuni Paesi pensano che sia arrivata l'occasione di saldare con Gheddafi conti sanguinosi che risalgono all'epoca del vecchio terrorismo. Occorre ricordare che il vecchio terrorismo colpì soprattutto la Francia e la Gran Bretagna, e attaccò dove poteva gli interessi degli Stati Uniti. Gli studi di Magdi Allam e di altri hanno messo bene in luce come i governi guidati da Giulio Andreotti e Bettino Craxi (1934-2000) non interruppero mai le linee di collegamento con Gheddafi, come con altri sponsor del vecchio terrorismo, tra cui Yasser Arafat (1929-2004). Fecero molte concessioni, forse troppe: ma ne ottennero in cambio una scelta che escluse l'Italia dagli obiettivi principali e strategici di quel terrorismo.

Non sempre i conti con i vecchi nemici sono saldati. Ma, quando se ne presenta l'occasione, è difficile resistere alla tentazione. Questa è una prima spiegazione del perché Francia e Gran Bretagna hanno preso l'iniziativa di attaccare Gheddafi, e gli Stati Uniti l'hanno - ma in seconda battuta rispetto ai primi due Paesi - appoggiata. A molti generali e dirigenti dei servizi segreti francesi e britannici non è mai andato giù che il colonnello, ispiratore di vecchi e sanguinosi attentati nei loro Paesi, sia sempre rimasto impunito. Agli Stati Uniti neppure, anche se oggi hanno altre priorità e per questo le loro gerarchie militari non erano entusiaste dell'attacco.

Seconda spiegazione: Francia e Gran Bretagna sono da anni potenze minori nel grande gioco della politica internazionale, dominato da Stati Uniti, Cina e Russia. L'opinione pubblica dei loro Paesi, che soffre di questa situazione a fronte di glorie passate, accusa pure la classe dirigente di avere sostenuto nelle ex-colonie personaggi impresentabili. Il presidente francese Sarkozy, in particolare, è in grande imbarazzo per avere appoggiato fino all'ultimo il dittatore ora deposto della Tunisia, che il suo partito ha sempre chiamato "notre ami Ben Ali". in Francia si va verso le elezioni presidenziali, e negli ultimi sondaggi Sarkozy era superato non solo da vari ipotetici concorrenti socialisti ma anche dalla candidata di destra Marine Le Pen. Negli Stati Uniti, da quando è scoppiata la crisi del mondo islamico, il presidente Obama è stato deriso non solo dai Repubblicani ma persino dagli umoristi per la sua indecisione e irrilevanza.

La Libia, un Paese che non è una ex-colonia né per i francesi né per gli inglesi, e dove gli americani non hanno alcun interesse che potrebbe essere messo a rischio, sembra offrire un'occasione ideale per rivendicare una perduta "grandeur" o fornire certificati di esistenza in vita a politiche estere latitanti come quelle di Obama. I rischi dell'operazione sul piano militare sembrano, almeno a prima vista, modesti. Si tratta dunque di ottenere benefici sul piano dell'immagine e del prestigio con costi relativamente limitati.

La terza spiegazione rimane a livello d'ipotesi. A tutt'oggi, nessuno specialista internazionale di cose nordafricane è stato in grado di tracciare una mappa credibile del mondo degli oppositori di Gheddafi e delle stesse forze che animano la lotta di Bengasi contro il colonnello. Si conoscono però alcuni nomi di capi di origine tribale che sembrano in posizione di forza nel cosiddetto governo provvisorio di Bengasi, il Consiglio Nazionale Libico. Si sa per esempio che il suo segretario è  Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, che fino al 21 febbraio era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica, per il trattamento riservato agli oppositori nelle carceri libiche di cui si era personalmente occupato. Un altro uomo forte della rivolta è il generale Abdul Fatah Younis, già Ministro dell'Interno e secondo alcuni numero due del regime di Gheddafi, e in precedenza capo della famigerata polizia politica del regime. Sono circolate voci confuse di sue trattative per rientrare nei ranghi dei lealisti fedeli a Gheddafi, ma dopo la risoluzione dell'ONU ha confermato la disponibilità a guidare le truppe dei rivoltosi.

Personaggi come questi non sono i "sinceri democratici" dei discorsi di Obama. Sono alcuni tra i peggiori arnesi del regime di Gheddafi, che aspirano a cacciare il colonnello per mettersi al suo posto. Non sono neppure fondamentalisti islamici, senza escludere affatto che una componente fondamentalista a Bengasi ci sia davvero. Ancora una volta, nessuno conosce davvero i movimenti degli ultimi mesi all'interno della nomenklatura del regime libico. Si sa però che alcuni avrebbero voluto un riavvicinamento alla Francia e ai Paesi filo-francesi dell'area in campo economico e politico, criticando la politica di Gheddafi che trattava quasi esclusivamente con l'Italia. Considerato il notevole attivismo dei servizi segreti francesi in Nordafrica, non è forse irragionevole ipotizzare che ministri come Al Jeleil e Younis avessero avuto qualche contatto con loro. La Francia è l'unico Paese che ha riconosciuto il loro governo provvisorio, ed è stato il motore dell'operazione che ha portato all'attacco a Gheddafi.

Com'è evidente, nessuno di questi tre motivi coinvolge in modo particolare l'Italia. L'opinione pubblica italiana non pensa di avere conti da saldare con la Libia, non rimprovera nella sua maggioranza al governo uno scarso attivismo in politica estera né sogna un'improbabile "grandeur" militare o neo-coloniale. Nei rapporti economici e politici con la Libia aveva un filo diretto con Gheddafi senza bisogno di rivolgersi a ministri ribelli. Questo filo diretto con un personaggio sgradevole ha portato talora ad atteggiamenti discutibili, ma ha anche garantito vantaggi sul piano economico e su quello fondamentale del controllo dell'immigrazione. Da questo punto di vista, personalmente ritengo che le perplessità della Lega e quelle esposte in una bella intervista al "Corriere della Sera" del 20 marzo dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano siano ampiamente giustificate.

Questo tipo di situazioni, tuttavia, evolve rapidamente. Messa agli atti la perplessità, si devono però segnalare anche tre aspetti ulteriori. Il primo è che un vecchio terrorista ferito può facilmente trasformarsi per rabbia o per vendetta in un nuovo terrorista, così che oggi - ma, appunto, la situazione cambia ogni giorno - la permanenza di Gheddafi al potere appare pericolosa anche per noi.

Il secondo è che l'asse della politica estera dell'Italia repubblicana è comunque da sempre l'alleanza con gli Stati Uniti. Per quanto oggi la guida incerta e debole di Obama ci metta tutti in pericolo, una volta che della coalizione hanno preso la guida gli Stati Uniti a questa alleanza l'Italia non poteva immaginare di sottrarsi.

Il terzo aspetto da sottolineare è che - per quanto altri probabilmente mentano quando affermano d'intervenire per ragioni umanitarie e a sostegno delle popolazioni civili - l'Italia, da Nasiriyya all'Afghanistan, ha dimostrato che operare per la difesa di chi le guerre non le vuole ma le subisce - anche pagando un tributo di sangue - fa parte del suo DNA, e delle ragioni che spingono molto italiani a stringersi intorno alle Forze Armate in un patriottismo, questo sì, genuino e condiviso.

L'Italia utilizzi dunque la sua partecipazione più o meno obbligata e convinta alla coalizione per operare subito per una soluzione pacifica e negoziata, dove le armi tacciano quanto prima possibile e gli interessi della popolazione civile siano sempre e davvero al primo posto. È quanto ha chiesto il Papa all'Angelus di domenica 20 marzo. Prego, ha detto Benedetto XVI, "per coloro che sono coinvolti nella drammatica situazione di quel Paese [la Libia] e rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari. Alla popolazione desidero assicurare la mia commossa vicinanza, mentre chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana".