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LIBRO

I cattolici che fecero l'unità d'Italia

Luci e ombre del Risorgimento analizzate attraverso le figure più importanti del cattolicesimo che lo hanno preparato e vissuto.

Cultura 09_04_2011
copertina

E' uscito in questi giorni per la BUR, il libro di Andrea Tornielli "La fragile concordia - Stato e cattolici in centocinquant'anni di storia italiana". Vi proponiamo ampi stralci dell'introduzione.


Il segnale doveva essere forte, ma forse non è stato percepito in tutta la sua portata. Il 20 settembre 2010, vale a dire centoquarant’anni dopo la breccia di Porta Pia che segnò la fine del potere temporale della Chiesa, alla tradizionale celebrazione nel luogo in cui i bersaglieri piemontesi entrarono nella città del papa destinata a diventare la capitale d’Italia, a commemorare l’evento, a fianco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, c’era il segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Non era mai accaduto, in quasi un secolo e mezzo, che il capo della diplomazia vaticana nonché principale collaboratore del pontefice, prendesse parte a tale cerimonia, solitamente rivendicata da gruppi e gruppuscoli caratterizzati da residui dell’anticlericalismo ottocentesco come la grande sconfitta del papato e della Chiesa romana.

(…) Il cardinale Bertone è intervenuto a Porta Pia ricordando la famosa «benedizione all’Italia» di papa Pio IX, il pontefice regnante al momento della breccia, che concluse i suoi giorni considerandosi «prigioniero in Vaticano» in un palazzo, quello apostolico, del quale all’epoca aveva l’usufrutto ma neanche non la proprietà. Non è un caso che la presenza del segretario di Stato abbia suscitato le reazioni indignate e in qualche caso scomposte, di esponenti radicali, di dignitari massonici, di anticlericali in servizio permanente effettivo. Come pure, seppur più sommessamente, ha suscitato l’amaro commento di quei settori minoritari del cattolicesimo, per lo più tradizionalista, che avvertono la «ferita» del 1870 come ancora aperta e viva. Come un problema ancora oggi, in fondo, insuperato.

Come leggere, dunque, questi centocinquant’anni di storia unitaria e il contributo dei cattolici, oggi che il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, dichiara che «l’unità d’Italia è un bene comune, un tesoro che è nel cuore di tutti»? Non certo con gli occhiali delle nostalgie borboniche o temporaliste: nonostante lo stato pontificio non fosse affatto la sentina di tutti i mali e sia stato additato come esempio di malgoverno sulla base di ricostruzioni parziali e interessate, spesso poco attente alla realtà dei fatti e soprattutto reticenti nel descrivere le reali condizioni di vita delle popolazioni negli altri stati contemporanei, non si può non essere d’accordo con lo stesso Pio IX, che pur ritenendo di non potersene disfare considerava il potere temporale «una gran seccatura». Probabilmente nessuno tra i più accesi critici del processo risorgimentale rimpiange uno Stato governato da ecclesiastici.

E bisogna riconoscere che lo stesso Risorgimento, pur avendo innegabili accenti anticattolici, vide la partecipazione di preti e frati, come pure vescovi illustri sostennero la posizione conciliatrice, contestando sommessamente l’atteggiamento adottato dalla Santa Sede.

(…) Come pure bisogna riconoscere che parte della storiografia moderna, soprattutto quella di matrice laicista, ha dimenticato o minimizzato il fatto che il movimento per l’unità d’Italia, come laboratorio d’idee, è cresciuto all’interno del pensiero politico cattolico e ha ricevuto da quel pensiero politico il suo primo programma d’azione, come ha fatto recentemente notare lo storico gesuita padre Giovanni Sale. Nel processo unitario, insomma, il cattolicesimo non è semplicemente relegabile tra gli oppositori, tutt’altro.

Non si può infatti dimenticare che accanto a Giuseppe Mazzini e prima ancora di Camillo Cavour, ci sono stati i sacerdoti Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, che pensarono, a un nuovo assetto politico e sociale della penisola in termini «italiani», e che videro, spiega padre Sale, «nel confluire di culture e tradizioni locali diverse, amalgamate dallo stesso cemento della fede cattolica, le condizioni per la nascita di uno Stato confederale, sul tipo della Svizzera o degli Stati Uniti d’America, sottoposto alla medesima direzione politica ed economica».

Il prete piemontese Gioberti, fu uno dei primi a pensare la «nazione» italiana, definendola «una di lingua di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato tra i varii Stati che la compongono». Riconoscendo così l’identità comune che univa le popolazioni della Penisola già da secoli. L’unità, secondo Gioberti, sarebbe stata possibile, a suo parere, solo attraverso un’alleanza stabile e perpetua dei vari stati presenti in Italia, con il papa come «presidente naturale e perpetuo». In questo modo si sarebbe restituito al nostro paese quel «primato morale e civile» che in passato aveva espresso su tutto l’Occidente cristiano. Un primato, ha osservato lo storico Giorgio Rumi, che per lo stesso abate Gioberti era soprattuto culturale e spirituale, prima ancora che politico. Un’identità, insomma, da riconoscere come già esistente, che vedeva come sostanziale – oltre che innegabile – il contributo della fede cattolica e della presenza della Chiesa.

Non ci si deve certo nascondere che queste teorie, questi progetti, poi dispregiativamente chiamati «neoguelfi», avevano molti limiti. Ma avevano anche il merito di immaginare l’unificazione del paese non solo come costruzione politico-istitizionale, come realizzazione «tecnica» da parte di élite illuminate, ma anche, e soprattutto, culturale e sociale. Si trattava di visioni che cercavano di accordare la vocazione particolaristica dell’Italia dei comuni, considerando proprio il patrimonio di fede e cultura del cattolicesimo come elemento unificante.

E oggi, nell’epoca in cui si discute di federalismo, ci appaiono quasi profetici gli sforzi di Antonio Rosmini per far convivere tutte le realtà presenti nell’Italia di allora all’interno di una cornice statuale unitaria e federale. Proprio nell’ottica di «unità nella diversità», Rosmini, che intendeva salvaguardare i principi, la religione e il popolo di quell’Italia pre-unitaria, parafrasando Alexis de Tocqueville, avrebbe scritto: «L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra essere la formula della organizzazione italiana».

Il cardinale Giacomo Biffi, in un saggio del 1999, ha proposto una lettura cattolica del fenomeno risorgimentale a partire dal concetto di identità culturale nazionale, descralizzando alcuni miti «laici» della storiografia liberale. E ha sottolineato proprio il fattore culturale, individuato nella fede e nella tradizione cattolica, come principale elemento di coesione e unità nazionale, segnalando invece come «limite più grave del nostro Risorgimento» l’aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano «della fede cattolica e la sua quasi consustanzialità con l’identità nazionale». «Il Risorgimento – scriveva – non può ricevere, entro la lunga storia d’Italia, una valutazione negativa. Noi anzi […] ameremmo qualificarlo come “provvidenziale”». Ciò che il cardinale ha criticato era «l’integralismo storico» di quella parte della storiografia italiana che vedeva nel Risorgimento una «rinascita totalizzante», un «passaggio dalle tenebre alla luce», come se prima del 1860 tutto fosse stato squallore e degenerazione, mentre dopo quella data tutto avesse ripreso a fiorire.

(…) Già, pur ritenendo inammissibile la mancanza di prospettiva storica, che fa guardare a taluni al Risorgimento come se non fosse passato un secolo e mezzo, bisognerebbe fare lo sforzo – e questo francamente non appare in agenda – di evitare una «visione acritica» e una «rappresentazione idilliaca» del processo risorgimentale, leggendo la storia con gli occhiali rosa e dividendo il mondo in buoni e cattivi. Certi miti, anche storiografici, meritano di essere rivisti, non per demolire la «sacralità» del ricordo dei padri fondatori, ma per relativizzarlo o almeno per cercare di comprendere le ragioni di un atteggiamento, quello del papa Pio IX, ingiustamente presentato come «anti-italiano», a partire dal momento in cui decise – e fu decisione rivelatasi profetica – di non partecipare alla guerra contro l’Austria, comportantosi così come il pastore e il padre comune e non come un capo di Stato.

Non si può fare finta di ignorare che l’obiettivo dichiarato di molti autorevoli protagonisti del nostro Risorgimento non era soltanto il crollo del potere temporale, ma era la fine del papato stesso, perché si credeva che il pontificato romano, senza più il puntello di uno stato, avrebbe finito per scomparire favorendo la protestantizzazione dell’Italia, non a caso ancora oggi presentata da qualcuno come il vero elemento che avrebbe permesso la reale modernizzazione del paese.
Pio IX, che aveva ben presenti i suoi interlocutori, le loro idee, le politiche che avevano già attuato, aveva più di una buona ragione per preoccuparsi dell’affermazione e della diffusione di un modo di vita pubblica, politica e sociale che non soltanto non attingeva più ai principi del cattolicesimo largamente diffusi e condivisi dal popolo, ma lo combatteva apertamente.

(…) Sarebbe auspicabile che le celebrazioni dell’unità tenessero conto del fatto che l’Italia non nasce nella seconda metà dell’Ottocento e soprattutto che si valorizzassero, o perlomeno si cercassero di comprendere, le ragioni del papato dei cattolici costretti a scegliere tra la lealtà al nuovo Stato e quella alla Chiesa. Il Risorgimento, così come si è realizzato, «portò a forti lacerazioni nel Paese “reale”, che pesarono molto – ha scritto padre Sale – sulla formazione di uno Stato nazionale realmente unitario, e che furono definitivamente sanate soltanto quando i cattolici – dopo la lunga e travagliata vicenda del Non expedit – rientrano a pieno titolo nella vita politica nazionale».

In un momento di sbandamento e di crisi, forse varrebbe la pena di approfondire maggiormente gli elementi fondanti del vivere nel Belpaese, e riconoscere che ben prima e ben di più del tricolore (che pure, a partire dalla Grande Guerra, venne unanimemente assunto come vessillo comune, bagnato dal sangue dei soldati del Nord e del Sud), l’identità italiana si è formata grazie alle sue radici cristiane. Grazie a quel patrimonio di cultura e di arte fiorito nell’humus cristiano. (…)