I 47 ronin e la leggenda del samurai buono
Esce il fumetto che ripercorre la storia-leggenda dei 47 ronin che nel Giappone del '700 vollero vendicare il loro signore umiliato. Una vicenda di onori e vendette che gettano una luce poco romantica su una terra dove numerosi cristiani sono stati uccisi per il timore che incrinassero il potere.
Conoscete la storia-leggenda dei «47 ronin»? E’ la vicenda più giapponese che esista e non c’è giapponese che non la conosca. Prima la raccontiamo, poi commentiamo.
Durante il medioevo nipponico un daimy? (signore feudale) si trovava nel palazzo dello shogun (il gran capo dell’arcipelago) a Edo (l’allora capitale). Qui, gravemente provocato da un cortigiano, cercò di rispondere all’insulto, ma fu bloccato in tempo. Sì, perché estrarre la spada in quel luogo era vietatissimo, pena la morte. Lo shogun, saputo della provocazione, non fece giustiziare il colpevole ma benignamente gli permise di salvare il suo onore commettendo seppuku (suicidio rituale). L’onore sì, ma non il feudo e i beni, che vennero incamerati dallo shogun. I samurai del defunto si ritrovarono ronin, (lett. «uomini onda», cioè senza padrone e, perciò, costretti a vagare).
Una cinquantina di essi giurarono di vendicare il loro signore. Ma colui che ne aveva provocato la disgrazia, temendo proprio questo, stava in guardia. Bisognava fargliela abbassare. I 47 vendicatori, perciò, trascorsero i seguenti due anni a far credere che la disoccupazione li aveva abbrutiti rendendoli codardi, abietti, ubriaconi. Uno abbandonò la famiglia, uno la fidanzata, uno si fece sequestrare la spada, uno accettò gli sputi senza reagire. E così via. Quando il bersaglio predestinato si convinse dello scampato pericolo e licenziò la guarnigione che aveva arruolato a sua difesa, scattò la trappola.
La vendetta fu compiuta e i 47, poi costituitisi allo shogun, chiusero la loro missione col seppuku. Questa storia, perfetto ed estremo esempio di fedeltà al bushido (il codice dei samurai), impazzò subito nel teatro kabuki e in quello bunraku (di marionette), poi al cinema e nei manga.
Recentemente vi si sono cimentati gli attori americani Keanu Reeves, Morgan Freeman, Clive Owen, tanto la storia è affascinante. Purtroppo il mito ha offuscato, come al solito, la storia, e i «47 ronin» sono serviti ai samurai per rifarsi il maquillage a uso dei posteri (tra cui il famoso scrittore Yukio Mishima, tanto caro a certe destre nostalgiche). Intanto, godetevi la leggenda con i 47 r?nin a fumetti della ReNoir (Mike Richardson, Stan Sakai, 47 ronin, ReNoir, pp. 154, €. 19,90)
Ora, i chiarimenti. Cominciamo col dire che il «medioevo» giapponese non è mai esistito. E’ il cristianesimo che fa “ribollire” le epoche; chi non lo ha mai adottato vive da sempre una realtà immutabile, piatta e monotona. Il pagano ragiona così: si deve fare come si è sempre fatto. L’uomo plasmato dal cristianesimo fa il contrario. Perciò il Giappone è uscito dal suo eterno «medioevo» solo quando le cannoniere americane ve l’hanno costretto, a metà dell’Ottocento.
Il fatto dei 47 ronin si svolge nel 1702, mentre in Europa il Medioevo era un lontanissimo ricordo (c’era la guerra di successione spagnola). L’unica eccezione a un’età del ferro senza fine furono gli archibugi, introdotti dagli europei alla fine del secolo XVI. Per quanto riguarda l’onore e il codice bushido, stavano ai samurai come la morale evangelica sta ai cristiani: una cosa è il bell’ideale, un’altra quel che si fa in concreto. Perciò, i tradimenti, gli spergiuri, le pugnalate alla schiena, la corruzione, i fratricidi per motivi d’interesse erano la realtà.
Basta dire che al tempo dei 47 ronin regnava il clan Togukawa, che aveva vinto la decisiva battaglia di Sekigahara nel 1600 grazie a un venalissimo e spregevole voltafaccia sul campo. E che l’opera teatrale sui 47 fu vietata per molto tempo, proprio per evitare che qualcuno ci vedesse un riferimento al clan al potere. Non c’era un potente che non fosse costretto a dormire con un occhio solo, perfino i bonzi buddisti.
Per quanto riguarda la gente comune, la fame era la regola, a causa di una piramide sociale che ricorda quella sovietica: una pletora di funzionari (e i samurai lo erano) che gravava su contadini e pescatori, i quali non avevano alcun diritto, nemmeno al nome. Un samurai poteva ucciderne uno perché quello non si era inchinato a dovere al suo passaggio o anche solo per provare il filo di una spada nuova: bastava che comunicasse l’avvenuta esecuzione al primo ufficio incontrato.
Le donne, ovviamente, contavano ancora meno, e i bambini meno ancora. E non parliamo dei cristiani trucidati nei modi più efferati dalla fine del XVI alla fine del XIX, e solo per il sospetto che potessero incrinare il sistema di potere. Le caste, poi: i paria adibiti ai mestieri «impuri» (ancora oggi se lavori alle pompe funebri vieni scansato) o i menomati fisicamente (idem). Lo stesso James Clavell, nel suo (anticattolico) Shogun del 1975, è costretto a riportare l’episodio del servo che fa hara-hiri (sventramento non rituale) perché il suo padrone -inglese e ignaro della situazione- gli ha ordinato di spennare un fagiano: se non lo fa, verrà ucciso per la disobbedienza; se lo fa, perderà il suo rango di servitore per aver toccato un animale morto. Insomma, i 47 ronin stanno ai giapponesi come i Cavalieri della Tavola Rotonda stanno a noi. Bel mito. E basta.