I 33 anni rubati a Zuncheddu. E la riforma che serve
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L’assoluzione, «per non avere commesso il fatto», di Beniamino Zuncheddu, dovrebbe far riflettere sulla pericolosità di un modo di amministrare la giustizia che è costato al pastore sardo 33 anni di ingiusta detenzione. Serve una riforma.
I casi di ingiusta detenzione non occupano le prime pagine dei giornali né le concitate discussioni dei talk show, eppure si susseguono a cadenza regolare e gettano una luce fosca sul funzionamento della giustizia italiana, alimentando la sfiducia dei cittadini nella magistratura. Il caso Zuncheddu è la punta dell’iceberg di una vera e propria emergenza democratica che lede i diritti fondamentali della persona.
Dopo 33 anni di detenzione, Beniamino Zuncheddu, classe 1964, è finalmente libero e riconosciuto innocente. La Corte di Appello di Roma, nel corso di un processo di revisione, ha emesso una sentenza che ha ribaltato il destino dell'ex allevatore, assolvendolo dall'accusa di essere l'autore della strage di Sinnai, avvenuta l'8 gennaio 1991, nella provincia di Cagliari. In quella tragica vicenda persero la vita tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita.
La decisione dei giudici di revocare l'ergastolo e di far cadere le accuse contro Zuncheddu è stata presa con la formula «per non avere commesso il fatto». Questo verdetto sottolinea la mancanza di prove concrete a sostegno delle accuse mosse contro di lui e la sua totale estraneità al terribile episodio avvenuto oltre tre decenni fa. Era proprio necessario rubare 33 anni di vita a questa persona soltanto per la negligenza di chi si è occupato di quel caso? Si può scherzare così tanto con la libertà personale? E, soprattutto, ora chi pagherà per questo ennesimo errore giudiziario? Nessuno potrà mai restituire a Zuncheddu 33 anni di vita, ma se il suo sacrificio servisse almeno ad accendere i riflettori sulla pericolosità di questo modo di amministrare la giustizia, forse si potrebbero evitare altri casi come questo. E sarebbe opportuno che i giornalisti che hanno trattato fin da subito Zuncheddu come un mostro gli chiedessero scusa, perché la sua è stata anche una condanna mediatica.
Il caso di Beniamino Zuncheddu rappresenta uno dei momenti più imbarazzanti della giustizia italiana: 33 anni di carcere con il sospetto che il detenuto modello del carcere cagliaritano di Uta fosse innocente. Ma la richiesta di revisione processuale, presentata nel 2020, ha finalmente portato a una profonda analisi del caso, mettendo in luce elementi che avvalorano l'ipotesi dell'errore giudiziario.
Come detto, nel 1991, Zuncheddu, all’epoca ventisettenne, venne giudicato colpevole dell'uccisione di tre allevatori. Si parlò di un possibile movente legato a una disputa tra pastori. Fu condannato all’ergastolo. Solo di recente, però, con l’emergere di nuove prove, il caso si è riaperto. Proprio nei giorni scorsi il procuratore generale Francesco Piantoni, durante l'udienza della Corte d'Assise d'Appello, ha esposto quei nuovi elementi in modo dettagliato e coerente. «Mi sentivo come un uccellino in gabbia senza la possibilità di poter fare niente. In carcere mi dicevano sempre “se ti ravvedi ti diamo la libertà”. Ma di cosa mi devo ravvedere se non ho fatto niente. Perché non ho accettato? Perché non ho fatto niente»: queste le prime dichiarazioni, riportate dall’Ansa, di Beniamino Zuncheddu il giorno dopo la sua assoluzione in Corte d'Appello. «Non provo rabbia. Ho sempre sognato che arrivasse questo momento, dal primo giorno. Mi sento di dover dire grazie al partito radicale, a chi mi sta intorno, ai miei familiari, al mio paese», ha aggiunto. E ancora: «Quando ero in carcere la fede teneva alta la mia speranza».
L’Associazione nazionale magistrati (Anm) non ha niente da dire? E le testate giornalistiche che hanno massacrato per anni Zuncheddu non sarebbero tenute a ristabilire il dominio della verità dei fatti ricostruendo minuziosamente le ragioni che hanno determinato questo capovolgimento di prospettiva? «33 anni di carcere da innocente. Chi restituirà la vita perduta a Beniamino, allevatore sardo sbattuto ingiustamente in galera? Chi pagherà per questa atrocità? La riforma della giustizia non può più aspettare». Così sui social il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini.
Le forze politiche dovrebbero riflettere su casi del genere e guardare oltre gli steccati ideologici. Una riforma della giustizia che riduca al minimo rischi di errori marchiani come questo e che responsabilizzi maggiormente le toghe affinché rispondano dei loro errori come tutte le altre categorie professionali dovrebbe essere nell’interesse di tutti e invece continua ad essere un terreno di scontro tra destra e sinistra, col risultato finale di continui rinvii che impediscono di passare dalle parole ai fatti.