Hong Kong, torture cinesi dietro una facciata pulita
Dietro ad una facciata di professionalità della polizia di Hong Kong, si cela una realtà terribile. Un funzionario del consolato britannico, rapito dai servizi segreti cinesi, ha rivelato che molti dei manifestanti vengono deportati in Cina dove vengono torturati. Negli Usa approvata una nuova legge in difesa dei diritti umani a Hong Kong
Hong Kong, vediamo una facciata di civiltà in cui una polizia ben addestrata e professionale usa il minimo della forza, rispondendo con armi non letali anche quando i manifestanti e gli insorti usano armi letali come archi, frecce, catapulte e molotov. La facciata nasconde qualcosa di molto peggiore. Una verità nascosta spiega perché studenti e tranquilli lavoratori resistano fino all’ultimo sulle barricate e asserragliati dentro al politecnico di Hong Kong, divenendo guerriglieri, ricorrendo anche ad armi improprie e letali pur di scacciare la polizia e ritardare il momento dell’arresto, o fuggendo in ogni modo, anche calandosi dalle finestre o tuffandosi nelle fogne, come sta avvenendo negli ultimi giorni.
Molti degli studenti hanno scritto nero su bianco che non hanno alcuna intenzione di suicidarsi, prima che cadessero nelle mani degli agenti. Lo dichiarano anche a voce alta, nel momento in cui vedono che c’è una telecamera nei paraggi. Lo devono rendere chiaro perché si moltiplicano le notizie di “suicidi” fra gli arrestati, che molto probabilmente non sono affatto suicidi. Una delle richieste più pressanti dei manifestanti è proprio un'indagine indipendente sull'operato della polizia. Perché ci sono accuse di stupro, di pestaggi e di torture in carcere. Ma soprattutto, il sospetto che molti degli arrestati vengano deportati in Cina, anche se la famigerata legge sull'estradizione (origine della protesta) è stata cancellata.
Uno spiraglio sulla realtà delle carceri cinesi, in cui si rischia concretamente di finire, è stato aperto dalla testimonianza di Simon Cheng, funzionario del consolato britannico di Hong Kong, arrestato (di fatto rapito) dai servizi segreti cinesi lo scorso 8 agosto e scomparso per due settimane. Dopo mesi di silenzio, ora che è al sicuro nel Regno Unito, ha trovato il coraggio di parlare della sua esperienza. Simon Cheng era stato incaricato dal consolato di riportare notizie sulle manifestazioni a Hong Kong. Alla prima occasione, una trasferta a Shenzhen, la polizia cinese lo ha fermato e portato in una località segreta. Bendato e ammanettato è iniziato per lui il supplizio. Nonostante avesse dato già tutte le informazioni a sua disposizione, i suoi aguzzini volevano estorcergli confessioni compromettenti. Lo hanno costretto ad assumere posture innaturali per fiaccarlo, picchiandolo ogni volta che cedeva e privandolo del sonno. “Hanno detto di lavorare per i servizi segreti e che dunque non c’erano diritti umani in loro custodia. Poi hanno iniziato a torturarmi”.
La polizia politica cinese gli ha detto che assieme a lui erano detenuti anche diversi manifestanti di Hong Kong. Cheng ha sentito gli agenti urlare ad altri prigionieri “Alza le mani! Lo hai fatto tante volte nelle proteste, alzando i manifesti, adesso alza le mani!” Un aguzzino ha detto al prigioniero diplomatico che “scaglioni dopo scaglioni i manifestanti di Hong Kong vengono catturati e spediti qui in Cina”. Cheng ha sempre negato ai suoi torturatori che il Regno Unito fosse dietro alle manifestazioni: “Ho detto loro di essere sicuro al 100% che il Regno Unito non ha destinato risorse per aiutare le proteste”. Tuttavia ha dovuto firmare due “confessioni”: in una dichiarava di aver tradito la patria, nell’altra di essere un adescatore di prostitute. Quelle confessioni forzate non erano solo un modo per infangare la sua reputazione, ma anche per giustificare una detenzione amministrativa temporanea (per adescamento di prostitute) che non necessita di alcun processo.
Tornato in libertà, anche a seguito di pressioni dell’opinione pubblica (dopo che la sua scomparsa era diventata un caso internazionale), Simon Cheng ora vive nel Regno Unito e non ha alcuna intenzione di ritornare a Hong Kong. Solo tre mesi dopo il suo rilascio ha accettato di parlare alla Bbc. Dopo l’intervista, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab, ha convocato l’ambasciatore cinese per chiarimenti. E’ un incidente diplomatico. Ed è il secondo in un giorno solo, l’altro riguarda gli Stati Uniti.
A seguito dell’assedio del politecnico di Hong Kong, infatti, il Senato degli Stati Uniti ha passato all’unanimità una nuova legge, con primo firmatario Marco Rubio (Repubblicano, ex candidato presidenziale nelle primarie del 2016): la Hong Kong Human Rights and Democracy Act. Il provvedimento istituisce un nuovo monitoraggio, con cadenza annuale, dello status di autonomia legale di Hong Kong rispetto al resto della Cina. Gli Stati Uniti, insomma, si faranno garanti, almeno formalmente, del modello “uno Stato due sistemi” che dovrebbe regolare ancora i rapporti dell’enclave con il resto della Cina, dopo la cessione dell’ex colonia britannica nel 1997. E’ negli interessi degli Usa, oltre che del Regno Unito, che Hong Kong resti una realtà separata dalla Cina comunista, se non altro perché è uno snodo finanziario internazionale di prima grandezza. La legge conferisce al presidente il potere di applicare sanzioni personali ai responsabili di ulteriori violazioni di diritti umani a Hong Kong. In questo caso, ieri, è stato il governo cinese che ha convocato l’ambasciatore statunitense per chiarimenti. “La questione di Hong Kong non riguarda i diritti umani – ha spiegato alla stampa il portavoce Geng Shuang – ma il contrasto alla violenza e al caos”. Con metodi cinesi, si intende.