Hong Kong ha perso la sua autonomia. Usa reagiscono
L’Assemblea Nazionale del Popolo, il “parlamento” della Cina, ha votato: 2878 deputati a favore, 6 assenti, 1 astenuto e 1 contrario, hanno approvato la nuova legge sulla “sicurezza nazionale” di Hong Kong. La data del 28 maggio può passare alla storia, come la fine dell’equilibrio “un Paese, due sistemi”
L’Assemblea Nazionale del Popolo, il “parlamento” della Cina ha votato: 2878 deputati a favore, 6 assenti, 1 astenuto e 1 contrario, hanno approvato la nuova legge sulla “sicurezza nazionale” di Hong Kong. La data del 28 maggio può passare alla storia, come la fine dell’equilibrio “un Paese, due sistemi” che regolava i rapporti fra il regime di Pechino e l’ex colonia britannica sin dalla sua annessione alla Repubblica Popolare nel 1997, garantendone la piena autonomia legislativa.
Benché i parlamentari cinesi e il primo ministro Li Keqiang ritengano che la nuova normativa sia volta a “perfezionare” l’autonomia di Hong Kong nella sua unità con la Cina, la realtà sul campo dimostra proprio il contrario. Prima di tutto perché il fatto stesso di aver votato una legge che riguarda Hong Kong nel parlamento di Pechino (e non in quello di Hong Kong) è una violazione palese dell’autonomia. Non solo: anche se il testo approvato il 28 maggio è solo una bozza e il testo ufficiale sarà pubblicato a settembre, i suoi contenuti sono stati fatti trapelare e non promettono una maggiore autonomia. Anzi. Si parla di un articolo che prevede l’istituzione di agenzie di sicurezza in territorio hongkonghese direttamente controllate dalla Cina e dell’esclusione dei giudici internazionale dalla Corte di ultimo appello di Hong Kong in tutti i futuri casi che riguardano violazioni della sicurezza nazionale. I cinesi, insomma, vogliono mano libera. Una legge in discussione al Consiglio Legislativo, che ha suscitato uno sciopero e violente proteste (già 300 gli arresti), vieta di “manipolare” le parole dell’inno cinese: è un antipasto della Hong Kong che verrà.
“Di cosa hanno paura?”, i cittadini di Hong Kong che manifestano da mesi, si chiede un sacerdote cinese, don Stanislaus, intervenuto sull’agenzia missionaria Asia News. “Forse so cosa essi temono. Non vogliono creare un dipartimento politico nelle scuole; non vogliono che sia il [Partito] a gestire gli ospedali delle scuole; non vogliono che le croci e le chiese siano demolite; non vogliono che i missionari stranieri siano costretti a fuggire; non vogliono che le case vengano demolite; non vogliono manifestare [solo] sotto il permesso delle autorità; non vogliono denunciare problemi solo con l’approvazione dell’alto; non vogliono essere….; non vogliono diventare prigionieri [politici]; non vogliono essere come noi”.
La legge si ripromette di reprimere, conferendo poteri straordinari a polizia e magistratura, fenomeni di terrorismo, sovversione, sabotaggio, secessionismo, interferenza straniera e altri reati legati alla destabilizzazione politica. Ma il problema è l’interpretazione che ne dà Pechino. Ogni manifestazione di dissenso all’annessione di Hong Kong al sistema giuridico e legale cinese può essere bollata come “secessionismo”. E ogni manifestazione di dissenso, generalmente inteso, è “ingerenza straniera” perché, come dimostra tutta la stampa di Partito, tutte le manifestazioni del 2019 a favore dell’autonomia e della libertà di Hong Kong erano frutto di “infiltrazioni straniere”, britanniche o americane. Le confessioni cristiane sono “straniere” e i missionari “infiltrati”.
Hong Kong, però, è sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale e la mossa cinese non ha lasciato indifferenti le maggiori potenze democratiche del Pacifico. Usa, Australia e Canada, assieme al Regno Unito (ex “madrepatria”) hanno condannato la legge cinese e si sono schierati con il popolo di Hong Kong, definito “un bastione di libertà”. Hanno affermato che la comunità internazionale abbia preso un impegno di lungo periodo per garantirne prosperità e stabilità. La reazione asiatica è stata più tiepida. Il Giappone non ha aderito al comunicato congiunto delle democrazie del Pacifico, ma in separata sede ha espresso “preoccupazione” e promesso che affrontarà la situazione “in modo appropriato”. Reazione simile anche da parte della Corea del Sud, dove però sono stati i cittadini a scendere in piazza, con una protesta di fronte all’ambasciata cinese di Seul. Fra le democrazie asiatiche, solo Taiwan (la Cina democratica) ha condannato la legge sulla sicurezza per Hong Kong e ha promesso assistenza umanitaria agli honkonghesi che dovessero essere perseguitati.
A passare dalle parole ai fatti sono soprattutto Regno Unito e Stati Uniti. Il Regno Unito ha promesso di approvare un regime speciale per tutti i 300mila “British National (Overseas)” che vivono a Hong Kong, schiudendo loro le porte della cittadinanza. In pratica, Londra promette asilo politico, per quanti ne avessero bisogno. La reazione più forte, però, è già arrivata dagli Usa con un giorno di anticipo rispetto alla votazione della legge in Cina. Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, ha dichiarato “Oggi, ho riferito al Congresso che Hong Kong non è più autonoma dalla Cina, dati i fatti sul campo”. Non si tratta solo di una formalità: i rapporti fra Usa e Hong Kong sono regolati dall’Hong Kong Policy Act del 1992 che stabilisce condizioni speciali, di vantaggio rispetto al resto della Cina in campo fiscale, finanziario e commerciale, oltre che per ciò che riguarda i voli e i visti. La legge è però vincolata all’effettiva condizione di autonomia dell’ex colonia britannica rispetto alla Cina e ogni anno lo status di autonomia viene “certificato” dal Congresso. Quest’anno, Pompeo dichiara che: “dopo un attento studio degli sviluppi”, “ho certificato oggi al Congresso che Hong Kong non continua a giustificare il trattamento ai sensi delle leggi degli Stati Uniti allo stesso modo in cui le leggi statunitensi erano applicate a Hong Kong prima del luglio 1997. Nessuna persona ragionevole può affermare oggi che Hong Kong mantenga un alto grado di autonomia dalla Cina, dati i fatti sul campo”. Sono coinvolte da questo cambiamento direttamente 1300 aziende statunitensi che operano a Hong Kong. Ma “Se gli Stati Uniti una volta speravano che una Hong Kong libera e prospera avrebbe fornito un modello per la Cina autoritaria, è ormai chiaro che la Cina sta plasmando Hong Kong a sua immagine e somiglianza”, conclude Pompeo. Oggi Trump terrà una conferenza stampa “sulla Cina” e molto probabilmente annuncerà il primo pacchetto di sanzioni contro Pechino.
L’Italia si distingue, al contrario per il suo silenzio. Il governo Conte non ha ancora espresso alcun parere, in compenso Vito Petrocelli (Movimento 5 Stelle), presidente della Commissione Affari Esteri del Senato, ha di fatto giustificato la scelta della Cina: “Fermi restando l’obbligo assoluto e universale di rispettare i diritti umani e civili, a Hong Kong come a Minneapolis (sic!), e la ferma condanna di qualsiasi forma violenta di protesta, ogni Paese sovrano ha il diritto e il dovere di garantire l’ordine pubblico e la stabilità sociale ed economica sul suo territorio”.