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BENGASI

Hillary Clinton, alle radici della guerra in Libia

Hillary Clinton è stata convocata per una nuova deposizione di fronte al Congresso, per l'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia l'11 settembre 2012. Ma per comprendere meglio quel che successe occorre risalire al peccato originale: all'intervento americano in Libia del 2011, fortemente voluto dalla Clinton.

Esteri 23_10_2015
La morte di Christopher Stevens a Bengasi

La notte sull’11 settembre 2012, 11 anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono, una “folla” molto ben organizzata di jihadisti libici dava l’assalto alla sede del consolato statunitense a Bengasi.

L’ambasciatore americano Christopher Stevens e il funzionario Sean Smith venivano barbaramente assassinati. Poche ore dopo, il compound della Cia, che provvedeva alla sicurezza del corpo diplomatico, veniva espugnato. Nell’attacco perivano due guardie private, ex appartenenti al corpo speciale dei Navy Seals, Tyrone S. Woods e Glen Doherty. Altre dieci persone furono ferite, in quella lunga notte. L’attacco jihadista durò ore. Eppure ebbe successo senza che nessun reparto delle forze armate statunitensi intervenisse. Dopo l’uccisione dell’ambasciatore, il governo federale statunitense rilasciò dichiarazioni che a dir poco confusero le idee dell’opinione pubblica: non si sarebbe trattato di un attacco deliberato, ma di una sommossa spontanea, dovuta all’ira provocata in un popolo musulmano dalla messa online di un filmino indipendente e amatoriale su Maometto. Solo mesi dopo la Casa Bianca, con Obama nel pieno della sua campagna elettorale, avrebbe ammesso di aver subito un attacco terroristico. Ieri Hillary Clinton è di nuovo comparsa a cospetto del Comitato su Bengasi della Camera del Congresso degli Stati Uniti, per dare ulteriori spiegazioni. La sua versione dei fatti (allora era segretaria di Stato, l’equivalente americano del nostro ministro degli Esteri) si mischia con la sua campagna elettorale per le presidenziali del 2016, dove è ancora la favorita in tutti i sondaggi. Ma è anche un’occasione per ripercorrere quello che fu il vero peccato originale di tutta la fallimentare politica statunitense nel Medio Oriente: l’intervento in Libia e la caotica gestione del dopoguerra.

La Commissione parlamentare chiede conto alla Clinton sulla sua consapevolezza del pericolo che il suo ambasciatore stava correndo a Bengasi. Secondo le sette precedenti inchieste che sono state condotte dal 2012 ad oggi, il Dipartimento di Stato ha ammesso che la sicurezza della sede consolare non fosse all’altezza degli standard previsti per una situazione di crisi. La Clinton risponde che Stevens fosse perfettamente al corrente del pericolo, ma abbia ugualmente accettato l’incarico, volontariamente e a testa alta. L’allora segretaria di Stato difende la sua decisione: “Ritirarci dal mondo non è neppure da prendere in considerazione. L’America non può sottrarsi al suo ruolo di guida”, perché “quando gli Usa se ne vanno da un luogo, gli estremisti guadagnano terreno”. Ottima la retorica, già presidenziale. Ma la sicurezza, in ogni caso, non era all’altezza di una grande potenza. Era stata affidata anche a una locale milizia libica, la Brigata Martiri del 17 Febbraio, legata ai Fratelli Musulmani, probabilmente anche con contatti con Al Qaeda. Una milizia che, per altro, non era neppure stata pagata, secondo quanto risulta da una precedente indagine. La Clinton ritiene che le richieste da Bengasi per un rafforzamento della sicurezza non le siano mai giunte sul tavolo. Risulta inoltre che l’ambasciata degli Stati Uniti in Libia, con sede a Tripoli, non abbia fatto particolari pressioni per rafforzare la sicurezza dei colleghi a Bengasi. Insomma, si sarebbe trattato di una serie di sottovalutazioni e di errori di comunicazione nella catena di comando del Dipartimento. Ma l’ex segretaria di Stato si è comunque assunta, di fronte al Congresso, tutta la responsabilità per l’accaduto. Responsabilità che non le hanno affatto impedito o ostacolato la carriera, avendo finito il suo mandato e presentandosi ora come candidata di punta per le presidenziali del 2016.

La nuova inchiesta del Congresso è, come sempre, accusata di faziosità repubblicana dai democratici. Il presidente della Commissione, il repubblicano Trey Gowdy si difende affermando di aver per le mani 50mila nuovi documenti (comprese le email segrete della Clinton e quelle dell’ambasciatore Stevens) e 41 nuove audizioni di testimoni, tanto materiale inedito che richiede una nuova testimonianza dell’ex segretaria di Stato. Ma la nuova inchiesta permette di ricordare cosa fosse Bengasi nel 2012, all’indomani della guerra civile fra Gheddafi e i ribelli e alla vigilia di quella successiva (quella fra i governi di Tripoli e Tobruck, tuttora in corso). La Libia di allora, quando l’Isis non era neppure all’orizzonte, era “effettivamente sotto il controllo dei jihadisti alcuni dei quali palesemente affiliati ad Al Qaeda. Per Hillary Clinton era come mandare l’ambasciatore Stevens in un campo di addestramento di Al Qaeda – ironizza il giornalista conservatore Daniel Greenfield - con i terroristi nella veste delle sue guardie del corpo. Ed è quello che effettivamente fece”. Quel che la Commissione non può chiedere a Hillary Clinton (perché non è in suo potere chiederlo) è il perché di un dopoguerra così catastrofico. Come si spiega che, dopo 8 mesi di intervento aereo statunitense e Nato, concluso con l’uccisione di Muhammar Gheddafi, la Libia fosse in pieno caos jihadista? E come si spiega che, una volta che tale realtà è emersa in modo drammatico con l’uccisione di un ambasciatore degli Stati Uniti (il primo dal 1979), gli Usa non abbiano cambiato rotta e non abbiano neppure reagito duramente? Sono domande che possono trovare una risposta solo ripercorrendo le cause dell’intervento americano in Libia nel 2011.

Da un’inchiesta condotta dai giornalisti Jeffrey Scott Shapiro e Kelly Riddell e pubblicata a fine gennaio dal Washington Times, risulta che il Pentagono, a partire dall’allora segretario alla Difesa Robert Gates, fosse assolutamente contrario a un intervento militare in Libia. L’opposizione all’azione militare era tanto forte che il Pentagono aprì un proprio canale diplomatico informale, dialogando con Saif al Islam Gheddafi (il figlio maggiore del colonnello) prima e durante la guerra. Paradossalmente, la diplomazia spingeva per l’intervento, mentre l’esercito frenava, un caso unico nella storia contemporanea. Nella sua autobiografia, l’ex segretario alla Difesa conferma che la decisione di intervenire fosse arrivata direttamente dalla Casa Bianca, senza neppure passare dal Pentagono. Secondo Gates, una delle voci più insistenti a favore dell’intervento era Samantha Power, allora membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale e attuale ambasciatrice degli Usa all’Onu. Ma, all’interno del governo federale, la voce più influente era sicuramente quella di Hillary Clinton. L’argomento chiave per l’intervento era umanitario: si doveva impedire un massacro, che allora era ritenuto imminente.

L’incubo di Hillary Clinton era quello di veder ripetere, sotto i suoi occhi e la sua diretta o indiretta responsabilità, un eccidio delle dimensioni di quello del Ruanda. Le informazioni allora diffuse dai media arabi, poi rivelatesi infondate, parlavano già di almeno mille morti al giorno ad opera di Gheddafi. L’eventuale conquista di Bengasi, epicentro della ribellione, era vista come un potenziale futuro bagno di sangue. L’intelligence del Pentagono non confermava la veridicità dei massacri in corso, non solo Gates ma anche l’ammiraglio Mike Mullen (allora comandante in capo delle forze armate statunitensi) sconsigliavano vivamente un intervento armato in Libia. Secondo fonti del Pentagono sentite dal Washington Times, è stata soprattutto la Clinton, ancor più che Obama, a insistere per un intervento militare. Questo spiegherebbe, poi, l’atteggiamento di eccessiva fiducia nelle forze locali, la sottovalutazione del pericolo, che hanno preceduto l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, una volta liberata la Libia da Gheddafi, dunque una volta risolto quello che era visto come l’unico vero problema del paese. Spiega anche la sostanziale assenza di risposta all’assassinio dell’ambasciatore, una mancanza di azioni di forza contro quelli che erano stati gli alleati nella lotta al dittatore. Se gli scienziati “hanno la testa dura” e difficilmente ammettono i loro errori, lo stesso si può dire dei politici: molto difficilmente la Clinton avrebbe potuto ammettere un errore nella sua politica in Libia, di quella che era, sostanzialmente, la “sua” guerra.

Resta da capire come mai la Clinton fosse così appassionata al caso libico da voler intervenire a tutti i costi. Un aiuto può forse venire dalla sua più stretta consigliera di questioni mediorientali, Huma Abedin, anche lei ascoltata nei giorni scorsi dal Congresso sulla tragedia di Bengasi. La Abedin è una figura molto chiacchierata dai più indiscreti conservatori, che pensano sia legata ai Fratelli Musulmani. Pur non provandolo, sottolineano che è comunque figlia di Saleha Abedin, una donna membro della Sorellanza Musulmana (la branca femminile dei Fratelli Musulmani), figura di spicco in associazioni islamiche non propriamente moderate, come l’International Council for Dawa and Relief che è nella lista nera di Israele per il suo sostegno a Hamas. I Fratelli Musulmani, nemici di Gheddafi, sono stati finora i maggiori beneficiari della sua caduta. Attualmente guidano il governo di Tripoli (quello che “consente” la partenza dell’ondata di profughi per Lampedusa) ed è difficile combatterli. Anche perché gli Usa li sostengono ancora, opponendosi in ogni sede a un intervento più drastico contro di loro.