Hamas vuole i morti palestinesi, è ora di capirlo
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Le vittime palestinesi sono «un sacrificio necessario»: le parole del leader di Hamas non sono soltanto dimostrazione di cinismo politico, ma esprimono quel nichilismo mortifero tipico del jihadismo. Con cui dobbiamo fare i conti, anche qui.
Hanno giustamente fatto un certo rumore le affermazioni del leader di Hamas, Yahya Sinwar, intercettate dai servizi e pubblicate il 10 giugno dal Wall Street Journal. «Le morti dei civili sono un sacrificio necessario» e «Abbiamo portato Israele esattamente dove volevamo», indicano molto chiaramente la strategia di Hamas e il cinismo dei suoi leader.
Ma a dire il vero è curiosa la sorpresa di tanti commentatori. Che questo sia il pensiero e il modus operandi di Hamas e che la carneficina dello scorso 7 ottobre, con ostentazione dei video che mostrano la ferocia degli aggressori, avesse proprio l’obiettivo di scatenare la reazione di Israele era già abbastanza chiaro. Lo abbiamo sempre detto, e anzi già il 20 ottobre scrivevamo: «Nel concepire la carneficina del 7 ottobre, Hamas contava proprio sulla vendetta di Israele, funzionale al disegno di far saltare tutto il Medio Oriente per poter alla fine affermare la sua legge. La morte di tanti civili palestinesi è musica per le orecchie dei terroristi di Hamas, che hanno sempre usato i civili come scudi umani, perché sanno che tanti morti palestinesi significano maggiore sostegno alla loro causa».
E infatti in un’altra intercettazione sempre pubblicata dal Wall Street Journal, Sinwar dice ai leader politici di Hamas, seduti con i mediatori di Egitto e Qatar, di non fare concessioni, ma invece di chiedere la cessazione definitiva della guerra, aggiungendo che un alto numero di morti tra i civili farebbe crescere la pressione internazionale per fermare l’attacco di Israele.
Sia ben chiaro, questo non giustifica la “vendetta” di Israele, né la modalità con cui sta conducendo la guerra (e anche qui: lo abbiamo detto più volte); non solo, come è evidente da queste dichiarazioni così facendo il governo Netanyahu sta facendo proprio il gioco di Hamas e andando così incontro a una sconfitta.
Ma dovremmo una buona volta anche capire che le parole di Sinwar non sono soltanto una dimostrazione di cinismo politico, ma anche l’espressione di una cultura che esalta la morte, che la vuole: per gli altri ma anche per se stessi. Sono più di vent’anni che gli stessi jihadisti ce lo dicono e facciamo finta di nulla. Dovremmo ricordare il “teorema” di Osama bin Laden: «Noi vinceremo perché amiamo la morte più di quanto gli occidentali amino la vita».
Il grande studioso di terrorismo islamico, Olivier Roy, in un libro pubblicato nel 2016, Le djihad et la mort, spiegava proprio come al cuore del jihadismo ci sia una concezione nichilista, un istinto di morte e «non la costruzione di un’utopia».
Ieri, per smorzare le reazioni internazionali (a dire il vero neanche eccessive) alle parole di Sinwar, il portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, ha negato in una dichiarazione ad Al Arabiya che quelle parole siano state effettivamente pronunciate. Ma in realtà lo stesso Ghazi Hamad lo scorso 24 ottobre, poco più di due settimane dopo la strage del 7 ottobre, aveva detto cose non dissimili. In una intervista alla tv libanese, aveva esaltato l’azione terroristica, annunciandone anche altre: «Israele è un Paese che non può avere posto nella nostra terra. Dobbiamo rimuovere quel Paese che costituisce una catastrofe politica, militare e per la sicurezza per gli arabi e le nazioni islamiche, e deve essere finito. Non ci vergogniamo a dirlo, con tutta la nostra forza». E preannunciando altre azioni clamorose fino al raggiungimento dell’obiettivo, spiegava: «Dovremo pagare un prezzo? Sì, e siamo pronti a pagarlo. Siamo chiamati una nazione di martiri, e siamo orgogliosi di sacrificare i martiri».
È con questa perversa concezione di martirio che dobbiamo fare i conti, la stessa che ha prodotto attentati suicidi in Europa e negli Stati Uniti, sempre colpendo innocenti.
Se davvero si ha a cuore le sorti del popolo palestinese, si deve prendere atto una buona volta che anche Hamas ne è il carnefice e non il difensore.
Peraltro le affermazioni di Yahya Sinwar e di Ghazi Hamad aiutano a comprendere anche quanto sta accadendo ora con la partita a scacchi tra Israele e Hamas intorno al piano di cessate il fuoco presentato dagli Stati Uniti. Alla difficoltà di Netanyahu ad accettare lo stop all’operazione militare, fa da specchio la posizione di Hamas che fa credere a una sostanziale accettazione del piano ma proponendo degli «emendamenti» che vanno nella direzione di uno stop definitivo di Israele alla guerra, condizione che sanno già inaccettabile da Netanyahu come condizione preliminare.
Purtroppo la strada non solo per una soluzione del conflitto israelo-palestinese ma anche per un cessate il fuoco temporaneo è ancora tutta in salita: Hamas e il governo Netanyahu hanno obiettivi che non coincidono con l’urgenza che sente il presidente americano Joe Biden di raffreddare la tensione in vista delle elezioni presidenziali di novembre.