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IL FENOMENO

Halal, un business in espansione. E l’islam detta legge

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I prodotti halal, cioè «conformi alla sharia», sono in continua espansione nel mondo, Italia inclusa. La certificazione halal, che non riguarda solo la carne, è rilasciata da organismi islamici. Le criticità non mancano.

Cultura 10_08_2023

Macché “di nicchia”! I prodotti halal, vale a dire «conformi alla sharia», la legge islamica, hanno ormai conquistato una fetta importante del mercato mondiale e sono in continua espansione. Per due motivi: una forte valenza religiosa identitaria islamica; prezzi fortemente competitivi, in grado di intercettare anche la clientela occidentale, specie quella meno abbiente, con punti-vendita nei quartieri più poveri.

Con oltre mille aziende certificate halal, ad esempio, l’Italia si colloca oggi al terzo posto in Europa, dopo Inghilterra e Francia. Un balzo in avanti incredibile, tenendo conto che solo 16 anni fa, nel 2007, il nostro Paese si trovava all’ultimo posto. La grande distribuzione si è ormai mobilitata; c’è chi si è dotato di un angolo halal, come la Coop. I grandi marchi (Nestlé in 50 Paesi e poi ancora Aia, Amadori, Ferrarelle, Fabbri, Sterilgarda, per citarne alcuni) si sono allineati, così come molte piccole aziende e cooperative, esibendo con orgoglio sui propri siti, come un trofeo, l’agognata certificazione. In Francia, 10 milioni di clienti frequentano negozi e ristoranti halal. Solo nell’ultimo quinquennio, oltralpe, sono apparse una quindicina di catene, in cui i prodotti halal sono esclusivi o quasi, e altre sette grandi catene di hamburgherie. La Spagna produce oltre 2.500 prodotti halal, di cui è grande esportatrice, soprattutto nel settore delle carni, in Francia, ma anche nei Paesi privi di un’industria agroalimentare forte, come Algeria e Marocco. Insomma, il giro d’affari è notevole.

Negli ultimi anni, nonostante la pandemia, complessivamente il mercato halal è cresciuto del 15% in Europa, mentre nello stesso periodo il commercio “bio” ha registrato appena un +2%. Già al World Halal Food Council, svoltosi a Roma dal 26 al 30 marzo 2014, il messaggio, ripreso all’epoca dall’Ansa, fu molto chiaro: «“La finanza e i capitali islamici sono pronti a portare fuori dalla crisi l’Europa” e “in particolare l’Italia”, purché i Paesi seguano, “nella produzione, nella logistica e nella commercializzazione”, gli standard halal». Aggiunse in quella sede lo sceicco Fayez al Shahri: «Siamo pronti a investire anche in infrastrutture, ma l’Italia deve garantirci di riconoscere l’ufficialità del mercato halal, prevedendo la certificazione obbligatoria delle imprese interessate». Certificazione che spalanca le porte di un mercato da 1,6 miliardi di persone, ma che può essere rilasciata solo da organismi esclusivamente musulmani. Il che significa una cosa sola: che, a dettare le regole, vuole essere solo l’islam.

In Italia, ad occuparsene, è Halal Italia, applicando standard islamici nazionali e internazionali. Tale realtà, varata su richiesta della Comunità Religiosa Islamica Italiana, è stata riconosciuta ufficialmente da una convenzione interministeriale sottoscritta il 30 giugno 2010, sotto il governo Berlusconi IV. La convenzione punta a consentire alle aziende italiane di cavalcare l’internazionalizzazione e di conquistare così i mercati dei Paesi a maggioranza islamica. Ma l’arma è a doppio taglio, perché a dettar le regole è appunto l’islam.

A livello internazionale opera la World Halal Authority, un organo di certificazione riconosciuto da organizzazioni governative e non governative, dalle associazioni dei consumatori halal e dalle autorità e rappresentanze religiose dell’islam nel mondo. Il limite di tali organismi è però la loro autoreferenzialità, come evidenziato già il 19 dicembre 2011 su Il Sole 24 Ore da Annamaria Tiozzo, consulente di marketing islamico e di certificazioni religiose: «A oggi non abbiamo ancora degli standard internazionali di certificazione validi per tutti i Paesi. (...) In assenza di una regolamentazione, (…), utenti finali ed aziende sono lasciati a sé stessi».

Ormai si certifica di tutto, non più solo carne: generi alimentari, cosmetica, farmaceutica, logistica, finanza, servizi, turismo, accoglienza, eccetera. Come mai? Negli anni Novanta, anche tra i musulmani più radicali, non v’erano pretese particolari circa la carne halal. Finché non se ne scoprirono i vantaggi normativi: far pagare una piccola percentuale sulle vendite ha assicurato una formidabile fonte di reddito. Da quel momento in poi, è divenuta essenziale la certificazione halal. I punti-vendita effettuano da tempo raccolte a favore di organizzazioni caritatevoli islamiche, molte delle quali sono accusate di predicare però un islam troppo severo e rigoroso. Jérôme Fourquet, noto politologo e sociologo francese, intervistato lo scorso 5 luglio dal quotidiano spagnolo Abc, ha evidenziato come il 74% dei musulmani francesi sotto i 25 anni consideri la propria religione, l’islam, «più importante» della République, dello Stato. E questa tendenza, dagli esiti ancora incerti, sarebbe in netto aumento da diversi anni. Secondo il presidente dell’associazione Vigilance Halal (con oltre 5 mila iscritti), il dottor Alain de Peretti, «non v’è in Francia alcuna seria indagine sui flussi finanziari generati dall’industria halal, alquanto opachi».

Senza parlare delle perplessità che ancora suscita a più livelli la macellazione islamica halal, come quella ebraica kosher. Innanzitutto sul fronte igienico-sanitario. Viene definita, infatti, «macellazione in deroga». Perché? Il regolamento europeo n. 1099 del 24 settembre 2009, entrato in vigore l’1 gennaio 2013, prevede l’obbligo di stordimento prima dell’abbattimento per assicurare che l’animale sia incosciente e quindi insensibile al dolore nel momento di massima sofferenza. Tuttavia, tale regolamento ammette la possibilità di procedere alle macellazioni rituali anche senza ricorrere allo stordimento, riconoscendo in merito ampia discrezionalità agli Stati membri.

La macellazione halal prevede un operatore musulmano adulto e praticante. L’animale dev’essere rivolto verso la Mecca: prima di sgozzarlo, viene pronunciata l’invocazione detta basmala. Poi l’addetto procede, tagliando con una lama affilata e con un unico colpo trachea, esofago, carotide e vena giugulare dell’animale, che deve morire per dissanguamento. Contro tale pratica è scesa in campo un’armata Brancaleone, composta da diverse organizzazioni non governative, associazioni laico-umaniste votate alla secolarizzazione spinta, animalisti e frange partitiche annesse. Anche sul fronte sanitario, però, non mancano voci fortemente critiche. Alcuni anni fa la giornalista francese Anne de Loisy, autrice del libro Bon appetit! dedicato all’argomento, ha sollevato precisi dubbi. La modalità halal sarebbe «il metodo più economico e più semplice per abbattere le bestie», ha dichiarato in un’intervista a Paris Match, a fronte di una procedura, quella ordinaria, con lavaggi più frequenti, tempi morti e ritmi di produzione più lenti. Il già citato dottor de Peretti, da veterinario, ha sottolineato più volte i rischi batterici della macellazione rituale, evidenziati anche dall’Accademia dei veterinari francesi in un rapporto inviato nel dicembre 2006 all’allora ministro dell’Agricoltura.

Insomma, il mercato è allettante per numeri e potenzialità, ma le criticità non mancano. Forse, sarebbe il caso di tenerne maggior conto e di affrontarle.