Haiti, ucciso il presidente che tanti volevano morto
Ad Haiti il presidente Moïse è stato assassinato in casa sua. Anche sua moglie è stata ferita nello stesso attentato. Ignota resta la mano dietro agli attentatori, quattro dei quali sono stati uccisi e sei arrestati. Haiti non ha mai conosciuto pace e tanti volevano la morte del presidente che stava diventando sempre più autoritario e accentratore
Ad Haiti il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato in casa sua. Anche sua moglie è stata ferita nello stesso attentato e versa in gravi condizioni (anche se non è in pericolo di vita) in un ospedale di Miami dove è stata evacuata. Ignota resta la mano dietro agli attentatori, quattro dei quali sono stati uccisi dopo uno scontro a fuoco con la polizia e sei arrestati ieri. Sono tutti killer professionisti stranieri, uno ha la cittadinanza americana, stando a quanto riferito dalle autorità haitiane. Ma è mistero fitto sul mandante. I prossimi interrogatori degli attentatori catturati vivi, sempre che siano loro i veri colpevoli, dovrebbero dipanare un po’ la matassa del mistero.
Come in tutta la caotica storia di Haiti, la presidenza di Jovenel Moïse emerge da un periodo di grande tumulto e nel tumulto finisce. Il capo di Stato haitiano, 53 anni, era amministratore di piantagioni di banane, si auto-definiva “l’uomo delle banane” e verrebbe fin troppo comoda la battuta del presidente di una “repubblica delle banane”, mai stabile, occupata a lungo dagli Usa nella prima metà del Novecento (sempre a causa dell’assassinio del suo presidente, nel 1915) e poi sottomessa dalla dittatura di Duvalier e di suo figlio fino al 1986. Haiti balzò agli onori della cronaca mondiale nel 1991 per un colpo di Stato, quando venne cacciato Bertrand Aristide, presidente sacerdote salesiano e teologo della liberazione. Poi nel 1994, quando Clinton minacciò l’intervento armato e indusse la giunta militare a farsi da parte e reinsediare Aristide presidente (a cui seguì un breve intervento militare americano di peacekeeping). E poi nel 2004, quando Aristide, per la seconda volta presidente, e ormai spretato da otto anni, venne estromesso da una rivolta popolare. E infine nel 2010, quando era presidente René Preval (insediatosi per la seconda volta nel 2006 a seguito di una rivolta mentre i risultati delle elezioni erano ancora scrutinati), Haiti venne colpita dalla più grande catastrofe naturale della sua storia recente: un terremoto che ha provocato oltre 300mila vittime.
E’ in questo scenario veramente instabile, nel Paese più povero dell’emisfero occidentale, che nel 2016 le elezioni sono state vinte da Jovenel Moïse, anche se i risultati sono stati fortemente contestati dalle opposizioni. La rivolta dell’opposizione è stata talmente forte che per tutto il primo anno Moïse non ha potuto neppure insediarsi. Per questo è ancora presidente, perché conta i quattro anni dal giorno dell’insediamento reale e non da quello ufficiale. Anche in questo caso, gli oppositori gridano al pericolo autoritario. Un’accusa rafforzata dalle decisioni successive di Moïse. Negli ultimi due anni ha rinviato le elezioni legislative ed ha governato per decreto. L’ultimo anno, dopo aver rifiutato di lasciare la sua carica, per i motivi temporali di cui sopra, ha anche indetto un referendum (previsto per settembre) per una riforma elettorale che gli avrebbe consentito di candidarsi per un secondo mandato, di stabilire un maggior controllo sull’esercito, forse temendo di fare la stessa fine di Aristide. Sotto il suo governo, l’economia, già disastrosa, è precipitata ulteriormente. Ed è ulteriormente crollato anche l’ordine pubblico. Invece di combattere contro le gang che spadroneggiano nelle baraccopoli della capitale Port au Prince, il presidente ha appoggiato le gang a lui leali, per combattere gli oppositori e sedare le proteste. E’ anche accusato, dal Senato, di aver incassato una tangente dal Venezuela nell’ambito del programma PetroCaribe (fornitura del petrolio a prezzo politico).
Insomma, tanti avevano molti motivi per odiarlo e volerlo morto. Il principale sospetto ricade sulla coalizione di gang rivali a quelle governative, la cosiddetta Alleanza G9, guidata da Jimmy Cherizier, detto “Barbecue”. Ex poliziotto, nemico del presidente, la settimana scorsa si è fatto riprendere in video mentre intimava le dimissioni del capo dello Stato, spalleggiato da guerriglieri in passamontagna che agitavano il machete. “Barbecue” è noto anche all’estero come uno dei criminali più violenti del Paese. Il Dipartimento del Tesoro dell’amministrazione Usa lo ha inserito nella lista nera delle persone sanzionate per aver condotto nel 2018 un massacro su vasta scala in un sobborgo di Port au Prince, con 71 vittime e 400 case incendiate. La politica, in questo caso, c’entra poco: sono gang, talvolta ostili al presidente, talvolta alleate, che lottano per il controllo del territorio.
A voler male al defunto capo dello Stato, oltre ai suoi oppositori parlamentari, c’erano sicuramente anche alcuni degli ex premier licenziati, perché accusati della cronica crisi economica. Il presidente ne ha cambiati sei in quattro anni. L’attuale primo ministro ad interim, Claude Joseph, era stato appena licenziato dal presidente. Avrebbe dovuto succedergli, ieri, il giorno dopo l’attentato, Ariel Henry, chirurgo e vicino all’opposizione. Joseph sta governando ad interim e reclama la successione come capo di Stato, ma l’interpretazione della successione presidenziale è soggetta a interpretazioni molto diverse. Ed Henry potrebbe proclamarsi premier, anche se non ancora nominato ufficialmente. Cosa che potrebbe aprire una sanguinosa lotta per la successione nell’isola caraibica che non ha mai conosciuto pace.