Hai un donatore, non un papà
Se l’anonimato del venditore
di gameti non regge nemmeno
alla prova dei fatti. Il documentario
di Jerry Rothwell, Donor Unknown. Adventures in the Sperm Trade
(2010, ora in dvd), lo illustra adeguatamente.
«Sono davvero fortunato ad avere degli amici così». È questo il commento di Jeffrey Harrison in chiusura del documentario di Jerry Rothwell, Donor Unknown. Adventures in the Sperm Trade (2010, ora in dvd). La telecamera si sposta dunque su tre giovani ventenni che, di spalle, si allontanano dal parcheggio in cui l’uomo vive a Venice Beach, in un malandato camper insieme ai suoi quattro cani e un piccione.
Se certo è un po’ azzardato qualificarli come amici, esiste però il problema di come definire la relazione tra i protagonisti del filmato: Jeffrey Harrison è, infatti, il venditore di gameti maschili che ha permesso a quei ragazzi (e a molti altri ancora) di nascere. Ed è il venditore che, a distanza di anni, quei ragazzi vanno a cercare. Come ha scritto Kate Spicer («The Sunday Times») nulla «nella immaginazione di Hollywood può competere con la trama di Donor Unknown».
La vicenda parte dal desiderio della ventenne JoEllen, nata grazie ai servizi della Cryobank e cresciuta in Pennsylvania, di andare alla ricerca del Donatore 150 (questo il nome in codice di Jeffrey) e dei suoi fratelli: «Ho sempre saputo che l’avrei fatto per conoscere qualcosa di più su me stessa». Nel 2005 la vicenda finisce sulla prima pagina del «New York Times», l’articolo a sua volta finisce dal cassonetto nelle mani incredule dello stesso Harrison.
Donor Unknown racconta dunque una storia che è insieme antica e attualissima. Antica perché v’è il desiderio di scoprire sé stesso e le proprie origini di ogni adolescente. Attuale perché l’esigenza di sapere passa per una banca di sperma e per internet («sono rimasto affascinato dalla vicenda - ha detto il regista - perché mi sembra che Jeffrey e i suoi figli si sono dovuti relazionare con alcuni dei grandi dilemmi umani sollevati dai rapidissimi ritrovati della tecnologia riproduttiva»).
Senza minimizzare i nodi o dare giudizi, presentando la vicenda in tutta la sua complessità (e con qualche tocco di poesia), il documentario solleva molte delle questioni legate alla fecondazione eterologa. Innanzitutto quella dell’anonimato del venditore, anonimato in realtà in via di sparizione. Se esso all’inizio era voluto dai genitori legali (analogamente a quanto avveniva per l’adozione, si preferiva fingere che il figlio fosse nato dalla coppia), per un concorrere di ragioni oggi prevale invece il diritto del nato a conoscere le proprie origini. Nonché - è l’altra faccia della stessa medaglia - il diritto del cliente di sapere la storia medica di ciò che compra.
A favore dell’identità del venditore, vi sono innanzitutto motivazioni cliniche: si ritiene indispensabile conoscere l’anamnesi genetica dell’individuo per curare le malattie o prevedere possibili anomalie nella prole. Quindi, ragioni psicologiche: si invitano quanti richiedono l’eterologa a non mantenere il bambino, e il resto della famiglia, nell’ignoranza, onde evitare che il segreto diventi lacerante. Ma la spinta ad abbattere l’anonimato viene anche dal diritto, in primis per l’evidente contraddizione con la Convenzione internazionale dell’Aia che attesta il diritto del bambino a conoscere la propria origine. Quindi, per il rischio di matrimoni tra persone che, senza saperlo, siano consanguinee (una delle protagoniste del documentario decide di uscire solo con ragazzi latino-americani proprio per scongiurare l’incubo dell’incesto). Non manca poi la voce delle femministe: da anni, per esempio, la giurista Carmel Shalev sostiene che «il principio dell’anonimato del donatore rinforza la regola dell’irresponsabilità maschile nella procreazione».
In concreto si adottano soluzioni molto diverse. Se in Francia la legge del 1994 erige l’anonimato al rango dei grandi principi di ordine pubblico, Gran Bretagna, Svezia, Svizzera, Olanda e Nuova Zelanda (tra gli altri), hanno, invece, creato registri di donatori consultabili dagli stessi nati al raggiungimento della maggiore età. Se dunque in passato erano i genitori a voler tenere nascosta l’origine nel terrore che il genitore biologico reclamasse diritti sulla prole, oggi è il venditore che teme di vedersi, a distanza di anni, chiamato in causa a vario titolo. I dati parlano chiaro: non più protetti dal velo dell’anonimato, gli uomini sono molto più restii a vendere. Nei Paesi Bassi e Gran Bretagna, per esempio, la scorta di gameti si è esaurita da quando il silenzio è stato abolito. Il dibattito è molto acceso negli Stati Uniti, dove le banche del seme fronteggiano il dilemma tra la necessità di proteggere i venditori (per scongiurarne la scomparsa) e quella della trasparenza richiesta dalla clientela. Comunque l’esigenza del «venditore noto» sembra ormai inarrestabile, anche in virtù del mutamento di clientela. Le coppie eterosessuali, infatti, potevano anche fingere che la prole fosse loro, ma nella misura in cui sono invece coppie omosessuali o donne single a ricorrervi, va da sé che la presenza di una figura terza risulta evidente.
Se dunque la tendenza è quella di andare verso il superamento dell’anonimato (eventualità che tanti, Jeffrey incluso, certo non immaginavano, anche se poi lui ammette che «conoscermi era un loro diritto»), si pone il problema di come i protagonisti della vicenda - genitore non biologico, genitore biologico, nato e venditore stesso - si relazionano. Sono tutti aspetti che il documentario Donor Unknown affronta, in maniera più o meno esplicita.
Dopo l’iniziale entusiasmo, infatti, oggi la fecondazione con seme eterologo viene vista in modo molto più problematico. Per esempio, i padri legali non sempre rivendicano con chiarezza la loro paternità sociale, atteggiamento spesso aggravato dal modo negativo con cui viene ancora vissuta la sterilità, e sovente sono messi in secondo piano da mogli o compagne. Così costoro continuano a essere poco propensi a rivelare ai figli la loro vera origine: temono che, sapendoli geneticamente estranei, questi possano amarli meno. Nel suo Everything conceivable (2007), Liza Mundy racconta la reazione violenta di un padre americano quando il figlio gli comunica di voler cercare il donatore che gli ha permesso di nascere: la decisione viene infatti letta come un indicatore di infelicità.
Contestualmente, per quanto alcune madri vedano il venditore come mero insieme di spermatozoi piuttosto che come un individuo («tu hai un donatore, non hai un papà» ripete la madre a JoEllen), molte donne ne parlano invece come di una persona, innanzitutto perché si sentono grate (e, in qualche modo, in debito) verso colui che le ha rese madri. Per esempio, una delle madri del documentario racconta di aver mitizzato per anni il Donatore 150 («è stato la grande incognita, essendo pur sempre metà della mia prole»), salvo poi rimanere profondamente delusa dal Jeffrey in carne e ossa. Se il venditore è, di fatto, il procreatore, nella realtà la tentazione è di chiamarlo padre biologico, vice-padre, secondo-padre, tutti termini che, necessariamente, evocano una figura genitoriale (sia pure spesso di secondo piano). E anche la scelta (piuttosto diffusa negli Stati Uniti) di chiamarlo zio, rivela la necessità di riconoscergli un ruolo nel contesto familiare. Ruolo non facile, comunque. E questo anche per sua stessa responsabilità.
Risulta infatti con chiarezza da Donatore 150 come sia lo stesso venditore a non sentirsi padre. Jeffrey Harrison ribadisce più volte come siano solo cinque i suoi figli, e cioè i quattro cani e il piccione. È di loro che si prende cura, è a loro che legge le favole della buonanotte. In La fabbrica dei geni (2006), David Plotz riporta le parole di un venditore secondo il quale «generare creature in totale anonimato è in qualche modo simile a dipingere quadri che per te sono belli e inestimabili, pur sapendo che una volta finito dovrai darli via e probabilmente non rivederli mai più». Così, «ogni volta che veniva a sapere di una nuova nascita provava un senso d’orgoglio e un senso di perdita: la donazione era per lui un atto di amore altruistico e di dolore». Del resto Jeffrey, dopo aver premesso che «per farlo devi essere una persona un po’ sopra le righe: una persona normale non lo farebbe!», si definisce a soul caller.
Ma il nato, dopo aver trovato il venditore, come lo considera? Se il figlio dell’eterologa difficilmente riesce a prescindere (quanto meno simbolicamente) da questa figura, l’atteggiamento nei suoi confronti è decisamente ambivalente. Stando a uno studio pubblicato nel 2004 su «Human Reproduction», il venticinque per cento dei figli si riferisce a lui definendolo il donatore, il venticinque per cento lo indica come il padre biologico, un altro venticinque per cento semplicemente padre (un ragazzino lo chiama invece quel tipo). In assoluto, comunque, l’atteggiamento più diffuso nel campione è la curiosità: ben l’ottantadue per cento dei figli vuole sapere della sua vita. E se alcuni sentono il bisogno di chiedergli se li avesse mai pensati, molti credono che conoscerlo aumenterebbe il loro senso di identità. Il diciassette per cento, infine, cautamente ritiene che l’eventuale relazione con il venditore dipenderà da come egli sarà come uomo.
Esprimendo una posizione per nulla pacifica, lo psicologo francese Jean-Loup Clément, che da quasi trent’anni lavora al Centre d’étude et de conservation des oeufs et du sperme humains, sostiene che appreso il segreto i bambini non mettono quasi mai in dubbio che il loro vero papà sia colui che hanno visto ogni giorno della loro vita (Mon père, c’est mon père, 2006). Leggendo però i racconti dei nati da lui intervistati, emerge una situazione molto sfaccettata. Se Lionel H. afferma di non aver «mai dubitato che il nostro vero padre sia colui che ci ha desiderato e cresciuto non sono mica figlio di un montone!», dalle parole di Sebastien emerge invece ben altro: «Disgustoso! Concepito in una provetta, a 98 gradi sotto zero. E per di più, i miei hanno pagato per questo! Sono disposto a pagare caro per conoscere il mio vero padre. Sono contrario alla legge francese che protegge l’anonimato del donatore. Un figlio concepito così dovrebbe poter scegliere se conoscerlo o no. Mi manca una parte di me». Resta, comunque, che tanti avvertono la distanza con una normale relazione padre-figlio: un ragazzo nato con i gameti di Jeffrey afferma che - vada come vada - comunque la loro non sarà mai una relazione padre-figlio.
Né è irrilevante il versante economico della faccenda: che conseguenze può avere sapere di essere stati concepiti per denaro? (Per questo ci rifiutiamo di chiamare il padre dell’eterologa donatore). Jeffrey non ha problemi a raccontare come per lui quello del donatore sia stato un regolare lavoro: «Ci ho pagato l’affitto per otto anni».
«Possiamo influenzare il futuro» afferma un po’ tronfio in chiusura del documentario Donor Unknown, il gestore della Cryobank. Al di là dei soldi, della smania di gloria e del gusto per la fantascienza, occorrere sempre ricordare che dietro tutte le provette vi sono sempre storie di uomini, donne e bambine. Orientare il domani chissà poi se è un valore. Tentiamo disperatamente e variamente di influenzare il futuro, ma ci ritroviamo poi a non saper nemmeno come chiamare le figure che inventiamo.