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CONTINENTE NERO

Guerra in Sudan, la peggior crisi umanitaria al mondo

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Con 18 milioni di persone bisognose di assistenza, più di un terzo della popolazione, quella del Sudan è una catastrofe umanitaria. È causata dalla guerra civile, fra esercito e Forze di supporto rapido. E in Darfur è di nuovo pulizia etnica.

Esteri 31_10_2023
Sudan, fuga da Khartoum

Diciotto milioni di persone bisognose di assistenza su una popolazione che supera di poco i 48 milioni, oltre 4,2 milioni di sfollati, quasi 1,2 milioni di rifugiati nei paesi vicini. Quella del Sudan non è più una emergenza umanitaria, è una catastrofe umanitaria di proporzioni colossali. “Epiche”, le avevano definite le Nazioni Unite il 25 agosto illustrando al mondo il quadro raccapricciante delle conseguenze della guerra e, da allora, ogni giorno, la situazione è peggiorata su tutti i fronti: infrastrutture di importanza vitale distrutte, sistema sanitario collassato, sempre più persone prive di soccorso per mancanza di risorse e per l’impossibilità di raggiungerle perché intrappolate in zone troppo pericolose e perché i contendenti rifiutano di aprire corridoi umanitari per evacuarle o portare aiuto.

La guerra è iniziata lo scorso aprile, scatenata dai due generali al vertice della giunta militare che controlla il paese dal colpo di stato del 2021, il secondo in due anni: Abdel Fattah al-Burhan, di fatto il capo dello stato, e il suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, capo delle Forze di supporto rapido (Rsf), un organismo paramilitare forte di circa 100mila unità. Fin dai primi giorni epicentro degli scontri sono stati la capitale, Khartum, e i suoi dintorni. Poi il conflitto si è esteso ad altre parti del paese, in particolare alla regione occidentale del Darfur dove le Rsf hanno solide basi da 20 anni. Lì la guerra ha assunto toni e forme da pulizia etnica come già era successo nel 2004 e negli anni successivi quando, contro le tribù africane sedentarie, dedite all’agricoltura, si sono accaniti i pastori di origine araba istigati e sostenuti militarmente dal governo. Li chiamavano janjaweed, diavoli a cavallo, calavano sui villaggi seminando il terrore, davano fuoco alle abitazioni, distruggevano e razziavano raccolti e bestiame, uccidevano tutti, le donne dopo averle violentate. Molti di loro si sono arruolati nelle Rsf e stanno compiendo le stesse atrocità di allora, affiancati dalle milizie locali reclutate tra le etnie arabe. A El Geneina, la capitale del Darfur occidentale, le Rsf uccidono per le strade, sparando sui civili identificati come africani. In certi momenti i morti sono stati talmente tanti da non riuscire a seppellirli. Per spregio estremo le Rsf impedivano di farlo ordinando che i cadaveri fossero gettati via come rifiuti o lasciati a decomporsi per le vie della città.

Nel Darfur i civili muoiono a causa della loro appartenenza etnica, a Khartum vittime del fuoco incrociato perché i militari combattono senza curarsi di loro. A tratti i cadaveri sono talmente tanti che, per pietà e per scongiurare il rischio di epidemie, dei cittadini si improvvisano becchini. I morti vengono sotterrati dappertutto dove sia possibile scavare il terreno e, se sono tanti, in fosse comuni. “È sempre meglio che vedere i cani randagi mentre smembrano i cadaveri” spiegava a giugno un residente intervistato dalla rivista Africa ExPress. Ad aggravare il problema contribuiscono le frequenti e lunghe interruzioni della corrente elettrica a causa delle quali i cadaveri raccolti negli obitori si decompongono rapidamente.

Secondo calcoli ufficiali i civili uccisi dai combattimenti sono già più di 9mila. Ad essi va aggiunto il numero incalcolabile, ma di sicuro enorme, delle persone che sono morte e continuano a morire per denutrizione e mancanza di cure. Decine di ospedali sono stati colpiti dai bombardamenti e sono stati costretti a chiudere. Dove si combatte, quelli ancora in funzione hanno scarsità di tutto – medicinali, personale, acqua, luce elettrica – ed è sempre più difficile approvvigionarli. Muoiono persone che necessitano di farmaci ormai introvabili o che hanno bisogno di macchinari per sopravvivere, ad esempio quelle che devono sottoporsi a dialisi. A giugno a El-Obeid, capitale del Nord Kordofan, a causa di un black out durato più di due settimane almeno 12 dializzati sono morti. Muoiono donne incinte, per complicazioni durante la gravidanza e il parto, e neonati, perché nati prematuri, per banali malattie, per denutrizione. 

Nella spietata indifferenza di chi ha voluto il conflitto, in Sudan si commettono tutti i possibili crimini di guerra e contro l’umanità che la mente umana ha concepito. In particolare le Rsf sono accusate di reclutare minori e costringerli a combattere. A settembre almeno per una trentina di loro l’incubo è finito. Militavano nelle Rsf, erano stati presi prigionieri dall’esercito governativo. Il 15 settembre le autorità sudanesi hanno accettato di consegnarli alla Croce Rossa Internazionale in quanto prigionieri di guerra. Come in tutti i teatri di guerra, donne e bambine, oltre a patire gli abusi e le sofferenze di tutti, sono vittime di  violenze sessuali. Sono bottino di guerra, alla fine di un attacco lo stupro fa parte del “compenso” del combattente. Ma lo stupro è anche un modo per umiliare e demoralizzare l’avversario. Tutte le rilevazioni confermano un numero crescente di stupri, persino di bambine, ma si ritiene che i casi registrati, che pure sono migliaia, possano rappresentare soltanto il 2% circa del totale. Si hanno casi di ragazze sequestrate e abusate per giorni. “Sappiamo che i numeri ufficiali sono solo la punta dell'iceberg. Bambine di appena 12 anni vengono prese di mira per il loro genere, la loro etnia, la loro vulnerabilità” sostiene il direttore di Save the Children in Sudan, Arif Noor.

Chi riesce ad allontanarsi dal teatro dei combattimenti si mette in salvo, ma non per questo le sue sofferenze sono finite. Per quelli fuggiti all’estero, in gran parte donne e minori, la sfida quotidiana è la fame. Gli aiuti di base sono infatti drammaticamente insufficienti. Si dice che i paesi vicini – Ciad, Egitto, Sudan del Sud – si siano trovati impreparati ad accogliere così tante persone. Ma sono le Nazioni Unite, le loro agenzie umanitarie, prima fra tutte l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, a dimostrarsi, e non per la prima volta, inspiegabilmente e imperdonabilmente impreparate.