Guerra e affari, tutti i crimini di generali e politici
«I crimini di guerra non devono rendere»: è il titolo di un rapporto pubblicato il 12 settembre che contiene i risultati di un’indagine sul Sud Sudan durata due anni commissionata dall’attore George Clooney e dal centro di ricerche The Sentry, frutto della collaborazione di tre organizzazioni non governative.
«I crimini di guerra non devono rendere»: è il titolo di un rapporto pubblicato il 12 settembre che contiene i risultati di un’indagine durata due anni commissionata dall’attore George Clooney e dal centro di ricerche The Sentry, di cui Clooney è cofondatore, frutto della collaborazione di tre organizzazioni non governative. I crimini di guerra in questione sono quelli commessi in Sud Sudan negli ultimi tre anni, da quando cioè – per usare le parole di JR Mailey, uno degli autori del rapporto – è scoppiata una «guerra tra le fazioni rivali di una struttura cleptocratica che cercano di assicurarsi il controllo dello Stato» allo scopo di mettere le mani sulle risorse di cui il Paese dispone.
I protagonisti della guerra sono i vertici politici e militari: soprattutto quelli di etnia Dinka e Nuer. È un Dinka il capo di Stato Salva Kiir. Di etnia Nuer è il suo avversario, l’ex vicepresidente Riek Machar. Il Sud Sudan è diventato indipendente dal Sudan nel 2011 dopo aver subito per decenni la violenza genocida del suo governo, responsabile di milioni di morti. L’indipendenza ha messo fine a quella tragedia immane. Il paese era in rovina, devastato, tutto da costruire. Ma con la secessione si è ritrovato padrone di almeno due terzi dei giacimenti di petrolio del Sudan di cui aveva fatto parte: una ricchezza immensa, per di più con impianti di estrazione già avviati, bastava solo farli funzionare.
Inoltre la comunità internazionale era disposta a finanziare lo sviluppo e una missione Onu di peacekeeping vigilava sulla transizione post bellica. Le condizioni di sviluppo c’erano tutte, dunque, purché le leadership al governo fossero disposte a evitare corruzione e tribalismo, le due piaghe del continente africano. Ma non hanno voluto e nell’estate del 2013 è scoppiata la guerra che ha provocato decine di migliaia di morti, circa 2,5 milioni di profughi e tanta povertà. Il 9 settembre l’Onu ha annunciato che in Sud Sudan la fame ha raggiunto livelli senza precedenti, che quasi cinque milioni di persone – poco meno di metà popolazione – soffrono di serie carenze alimentari.
Se persistesse l’attuale situazione di insicurezza che impedisce le attività agricole in molte regioni – ha spiegato la Fao – la situazione potrebbe rapidamente diventare catastrofica. A peggiorare il quadro, il Pam, il programma alimentare delle Nazioni Unite, ha rivelato in questi giorni che governo e opposizione sud sudanesi hanno sequestrato diverse sue spedizioni di viveri destinati alla popolazione. A luglio, inoltre, con la ripresa dei combattimenti, nella capitale Juba il prezzo dei generi alimentari di uso comune è aumentato quasi dell’800%.
Ed ecco che arrivano testimonianze e documenti «dettagliati e inconfutabili» di come proprio i colpevoli delle violenze atroci inflitte alla popolazione e della miseria in cui si dibatte siano riusciti in questi anni ad accumulare cospicui patrimoni nonostante il conflitto, continuando a trarre profitto dalle imprese di cui sono proprietari, e persino grazie al conflitto stesso: per esempio, vendendo carburante all’esercito come fa una ditta legata al generale Gregory Vaisli Dimitry, cognato del presidente Kiir; o, come nel caso del vice presidente Machar, scambiando petrolio con armi per i propri miliziani con una fabbrica ucraina.
La moglie e sette figli del presidente Kiir, compreso uno che ha 12 anni, sono proprietari o detengono quote di decine di imprese: compagnie aeree, banche, compagnie petrolifere e minerarie, casinò e via dicendo. Gli alti ranghi politici e militari arrotondano i loro stipendi allo stesso modo. «Mi ha molto colpito la varietà dei settori economici e finanziari in cui i vertici politici e militari sono presenti», spiega JR Mailey, «un pugno di persone potenti controlla una porzione enorme dell’economia nazionale».
Ad esempio, due generali, Malek Reuben Riak e Gabriel Jok Riak, guadagnano meno di 50.000 dollari all’anno, ma sui loro conti bancari esteri sono depositati milioni di dollari. Paul Malong Awan, un altro generale, con uno stipendio di 45.000 dollari l’anno, tuttavia, è proprietario di due ville in Uganda e di un palazzo del valore di due milioni di dollari a Nairobi, la capitale del Kenya. Gran parte delle ricchezze dei leader sud sudanesi finiscono all’estero, investite in immobili di lusso e in attività finanziarie in Kenya, Etiopia, Uganda e altri stati. Tra l’altro, il presidente Kiir e il suo avversario, Machar, in Kenya sono vicini di casa: hanno due case nello stesso elegante quartiere di Nairobi.
Il rapporto del The Sentry comprende anche una documentazione fotografica di queste costose proprietà. «Che ne è stato dei Paesi africani che si prendono cura gli uni degli altri? - commenta il forum di discussione This is Africa -. Gli africani parlano volentieri di una grande cospirazione occidentale per saccheggiare il Continente alimentando i conflitti etnici. Ma ecco saltar fuori che dei Paesi africani fanno esattamente la stessa cosa. The Sentry prova come Kenya e Uganda da anni voltino la testa dall’altra parte mentre i leader del Sud Sudan nascondono miliardi di dollari rubati nelle loro banche e li spendono per acquistare proprietà immobiliari e intanto versano sangue innocente in patria. Se le mani del presidente Salva Kiir, dell’ex vice presidente Riek Machar e dei loro generali sono sporche di sangue, allora lo sono anche quelle di chi in Kenya e in Uganda accetta il loro denaro».