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SCENARI

Guerra di Libia, a pagare è l'Africa

L'avventura anti-Gheddafi
è un disastro per i Paesi dell'Africa sub-sahariana, e non solo. Parte dell'arsenale militare è in Mali e Niger.

Attualità 31_01_2012
Libia, ecco chi paga

È in corso ad Addis Abeba, Etiopia, il XVI vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione Africana, UA, il primo dopo la morte del colonnello Muhammar Gheddafi che ne fu l’ideatore nel 2002, in funzione della realizzazione di un suo ambizioso progetto: la creazione degli Stati Uniti d’Africa.

L’organismo patisce in questi mesi non tanto la scomparsa del proprio padre fondatore quanto il fatto di aver perso il proprio maggior finanziatore. Gheddafi infatti provvedeva al 15% del budget annuale dell’UA e inoltre saldava i numerosi debiti dei paesi subsahariani nei confronti dell’Unione, il che raddoppiava più o meno il contributo libico. Bisogna aggiungere che il Colonnello elargiva regolarmente enormi “regali” finanziari a numerosi governi africani: in altre parole copriva quote anche rilevanti dei loro bilanci. Il venir meno di questi capitali incide sulla disponibilità di diversi stati membri dell’UA di onorare gli impegni finanziari assunti. Nell’insieme le quote dei paesi africani hanno già subito un calo di circa un terzo e si calcola che nel 2012 saranno i partner non africani a coprire il 90% dei costi dell’organismo, oltre a quelli delle operazioni di peacekeeping ad esso affidate.


Della scomparsa del Colonnello Gheddafi risentono però soprattutto le popolazioni africane. Oltre ai doni miliardari, che almeno in parte si traducevano in servizi, sono venuti meno anche gli investimenti libici in infrastrutture e opere pubbliche.


Ma c’è di più. Non meno di un milione di africani provenienti da paesi subsahariani vivevano in Libia dove lavoravano e percepivano buoni stipendi, almeno se commisurati a quelli dei paesi d’origine. Le loro rimesse consentivano ai famigliari rimasti in patria di sopravvivere e non di rado di provvedere all’istruzione dei figli, di costruirsi una casa, di risolvere le emergenze domestiche. Nei casi più fortunati, servivano ad avviare piccole attività economiche. Molti di questi emigranti sono tornati in patria all’inizio della guerra libica. Bene hanno fatto se si considera il trattamento che subiscono quelli rimasti in Libia: accusati di essere mercenari al soldo di Gheddafi, incarcerati, torturati... come denunciano Amnesty International e altre organizzazioni tra le quali, nei giorni scorsi, Medici senza frontiere, il cui personale è costretto a curare persone torturate solo per vederle tornare tra le grinfie dei loro aguzzini.

Il rientro in patria degli emigranti non soltanto significa la fine delle preziose rimesse, ma comporta gravi problemi economici e di ordine pubblico poiché la maggior parte di essi ha lasciato in Libia ogni avere e, in paesi in cui i settori economici moderni sono poco sviluppati, va ad accrescere il numero delle persone disoccupate che vivono di espedienti, ammassate nelle malsane bidonville dei centri urbani. A peggiorare la situazione concorre la carestia che si è abbattuta su tutto il Sahel: in Niger, in particolare, il ritorno di tanti emigranti si verifica mentre un terzo della popolazione necessita di aiuti alimentari almeno fino al prossimo raccolto.


Non stupisce quindi che ancora dei governi africani rifiutino di riconoscere il Consiglio nazionale di transizione libico e nemmeno che alla morte di Gheddafi si siano tenute commemorazioni e riunioni di preghiera in sua memoria come è successo, ad esempio, in Mali.


Proprio questo paese patisce ulteriori, drammatiche ripercussioni della guerra che ha posto fine al regime del Colonnello. In Mali, e nel resto del Sahel,  sono fuggiti molti militari libici e soprattutto è stata esportata una parte di quell’arsenale militare libico di cui il quotidiano francese Le Monde ha detto che “ha fornito abbastanza armi da armare l’intero continente africano”.

Per questo, secondo il presidente del Mali, Amadou Toumani Touré, “la primavera araba porterà a un’estate di follia nella regione”. Nel suo paese ha già portato dalla Libia armi, militari e tuareg rimpatriati che hanno consentito al Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad di scatenare una violenta e vittoriosa offensiva nell’est, al confine con il Niger, dove si combatte ormai da settimane.


Ma in tutta la regione è forte il timore che armi e militari libici rafforzino bande armate, movimenti antigovernativi e gruppi terroristici come Al Qaeda nel Maghreb islamico, il movimento nato in Algeria che ormai conta cellule e alleanze ovunque. È possibile che lo stesso Boko Haram, il gruppo fondamentalista islamico che mira a imporre la shari’a in Nigeria, abbia potuto intensificare in questi mesi la propria attività grazie all’arsenale libico.