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AFRICA

Guerra del petrolio tra i due Sudan

Stanno bene e si trovano al confine tra Sudan e Sud Sudan i due sacerdoti rapiti il 15 gennaio. Sullo sfondo l'acuirsi della tensione tra i due stati.

Attualità 23_01_2012
sudan, monsignor Kur

Sono vivi e si trovano a Wadakona, una cittadina al confine tra Sudan e Sud Sudan, i due sacerdoti rapiti nella notte del 15 gennaio nella loro parrocchia di Rabak, la capitale dello stato sudanese del White Nile, situata 260 chilometri a sud della capitale Khartoum.


Il sequestro è opera di un gruppo armato di etnia Shilluk, una delle milizie in lotta contro il governo del Sud Sudan e che, secondo le autorità del nuovo stato africano nato lo scorso luglio dalla secessione dal Sudan, sono appoggiati dal regime di Khartoum. Padre Sylvester Mogga e padre Joseph Makwey si trovavano all’interno degli edifici parrocchiali quando i rapitori a bordo di un camion hanno sfondato il cancello d’ingresso e li hanno aggrediti. Soltanto il 18, in serata, hanno quindi potuto mettersi in contatto con Monsignor Daniel Adwok Kur, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Khartoum, e lo hanno informato che per la loro liberazione i sequestratori esigono un riscatto: una somma molto elevata – ha spiegato Monsignor Adwok – che la diocesi non è in grado di pagare.


A prescindere dall’entità del riscatto, le autorità religiose sudanesi stanno valutando la situazione, ben consapevoli del fatto che assecondare le richieste dei rapitori rischia di incoraggiare altri sequestri di sacerdoti. Non si esclude inoltre che Padre Mogga e Padre Makwey, entrambi originari del Sud Sudan, siano stati presi di mira perché sospettati di legami con l’attuale governo sud sudanese.


Il loro rapimento si inserisce infatti in un contesto di rapporti sempre più tesi tra Sudan e Sud Sudan. Nelle regioni sudanesi di confine tra i due paesi, in particolare in Sud Kordofan, Blue Nile e Abyei, una parte della popolazione per decenni, durante la guerra civile, ha sostenuto l’SPLA, il principale movimento indipendentista del Sudan meridionale, e male accetta di continuare a far parte del Sudan. Si sono formati in questi mesi dei movimenti antigovernativi contro i quali Khartoum ha ordinato una violenta repressione che ha già provocato numerose vittime e decine di migliaia di sfollati.


Per contro, in Sud Sudan diversi gruppi armati contestano il fatto che le istituzioni politiche siano in gran parte in mano ad alcuni clan dell’etnia Dinka, gli stessi che avevano fondato e guidato l’SPLA ora rinominato SPLM. Al momento i Dinka, con 11 ministri su 29 e 12 viceministri, controllano il 41% del governo e quasi tutti i ministeri più importanti.

È evidente, in effetti, che il Sudan ha interesse ad aiutare i movimenti antigovernativi sud-sudanesi per incrinare fin dall’inizio l’unità e la fragile consistenza di uno stato che, pur disponendo delle enormi risorse derivanti dai giacimenti di petrolio – Khartoum ha dovuto cedere al Sud Sudan tre quarti di quelli attualmente sfruttati – deve costruire quasi dal nulla e il più presto possibile servizi, infrastrutture, apparato amministrativo e istituzioni democratiche.

A peggiorare la situazione giunge la conferma che Khartoum pretende di imporre una tassa di 36 dollari – contro i 74 centesimi di dollaro normalmente pagati in situazioni analoghe – su ogni barile di petrolio sud-sudanese che transita nel proprio territorio: un vero e proprio ricatto dal momento che il Sud Sudan per il momento non ha altro modo per commercializzare il proprio greggio che portarlo al terminal di Port Sudan, in Sudan, servendosi degli oleodotti sudanesi. Ad Addis Abeba, dove sono in corso negoziati tra i due governi, il portavoce sudanese ha fatto sapere che Khartoum intende esigere sei miliardi di dollari di arretrati e confiscare a titolo di risarcimento un carico di 650.000 barili di petrolio giunti a Port Sudan.

Come se non bastasse, il Sudan minaccia anche, in caso di mancata intesa, di espellere entro aprile circa 700.000 sud-sudanesi da anni emigrati al nord, rifiutando di concedere loro la cittadinanza. Il loro ritorno forzato nelle regioni di origine, bisognosi di assistenza e integrazione, creerebbe ulteriori problemi economici, sociali e di ordine pubblico al governo sud-sudanese in rodaggio.