Grecia, agitare il popolo prima dell'uso
Alexis Tsipras accetta le riforme contro cui ha fatto votare i greci. L'accordo raggiunto con l'Eurogruppo evita la "Grexit", ma impone austerity e commissariamento, peggio ancora delle condizioni respinte a gran maggioranza dal referendum. Al premier resta una sola soddisfazione: ha fatto un capolavoro di camaleontismo. Come diceva Talleyrand, ha "agitato il popolo prima dell'uso".
Diceva Talleyrand che «in fondo la politica non è altro che un certo modo di agitare il popolo prima dell’uso». Non sappiamo se Alexis Tsipras abbia mai letto qualche opera del principe, vescovo, politico francese, considerato padre del “camaleontismo” per aver saputo servire, indistintamente, monarchia, repubblica e impero. Di certo, però, ha dato prova di saperne applicare i principi nella propria azione politica.
Quello che sta succedendo in questi giorni fra Atene, Berlino e Bruxelles è difatti un vero e proprio capolavoro di arte del trasformismo da parte del premier greco. Lui che per cinque mesi ha sbraitato contro le misure proposte dall’Europa e dall’ex troika (oggi Brussels Group), ha disertato – tramite l’ex fido ministro Yanis Varoufakis – le riunioni dell’Eurogruppo. Lo stesso Tsipras che ha convocato un referendum ad hoc sul piano di salvataggio proposto dai creditori e che poi, dopo la netta vittoria del No, ha finito per accettarlo almeno nei punti focali.
Ma andiamo per ordine. Dopo un week end di fuoco (ci sono state una trentina di ore di discussione) ieri mattina il premier belga Charles Michel ha annunciato su Twitter la chiusura dell’accordo sul piano di salvataggio. Una notizia subito confermata dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk («L’Eurosummit ha raggiunto l’accordo all’unanimità. Siamo tutti pronti per il programma Esm, il fondo salva-Stati, per la Grecia con riforme serie e aiuti economici») e dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker («l’accordo è stato laborioso e ha richiesto tempo ma siamo soddisfatti: non ci sarà nessuna Grexit»). Una boccata d’ossigeno per chi pensava a una Grecia ormai condannata al default.
L’accordo - ha confermato Angela Merkel - porterà nelle (malandate) casse pubbliche ateniesi una cifra compresa fra gli 82 e gli 86 miliardi di euro, di cui 24 destinati al sistema bancario. Denaro sonante che permetterà al Paese di rialzarsi in piedi, almeno qualche mese: i cittadini potranno infatti prelevare e il governo pagherà stipendi e pensioni. Una situazione di ripresa parziale su cui non è però ancora detta l’ultima parola: nei prossimi giorni, infatti, il parlamento greco dovrà ratificare i punti chiave dell’accordo che – come ha lasciato intendere la Merkel - presuppone il ritorno della troika ad Atene per sorvegliarne la corretta attuazione.
Già perché quello che spesso non si dice è che, nei fatti, questo piano non è la vittoria che Tsipras vuol far credere ai propri elettori. Al di là dell’importante sostegno economico, inizialmente non previsto, il resto del programma su cui ci si è accordati è grosso modo quello su cui si è svolto il referendum. Il documento ufficiale dell’Eurosummit di ieri mattina, che Tsipras sbandiera come propria vittoria («abbiamo lottato fino alla fine per ottenere ciò che è meglio, un accordo che consentirà al Paese di stare in piedi e al popolo greco di continuare a combattere»), impegna il parlamento greco ad approvare, entro due giorni: la riforma dell’Iva al 23% senza esenzioni, riforme per rendere immediatamente sostenibile il sistema pensionistico (piena attuazione della riforma del 2012 che Tsipras voleva rimandare al 2022), la piena indipendenza dell’Istat greco per evitare brogli sul bilancio e addirittura un meccanismo taglia-spese nel caso di deviazione dagli obiettivi di surplus primario (avanzo al netto degli interessi) fissato all’1% nel 2015, 2% nel 2016, 3% nel 2017 e 3,5% negli anni successivi. Non solo: entro il 22 luglio il parlamento dovrà approvare ambiziose privatizzazioni (fra cui quella del mercato dell’energia, che Tsipras ha sempre rivendicato come un monopolio statale intoccabile) e riforme del mercato del lavoro, fra cui una vigorosa revisione della contrattazione collettiva, vero e proprio oggetto culto dei potenti sindacati greci. Il piano previsto prima del referendum prevedeva, esattamente, gli stessi punti anzi era – per certi versi – ancora più morbido. La riforma pensionistica, ad esempio, sarebbe andata a regime solo nel 2022 e l’Iva sarebbe scattata solo all’inizio del 2016.
Comunque la si pensi – a nostro giudizio in buona parte sono misure necessarie a evitare il default – si tratta di un commissariamento de facto della Grecia. Quel controllo politico ed economico da parte delle “Istituzioni” europee che Tsipras ha sempre biasimato e che oggi finisce di fatto per accettare. Una scelta che lo porta ad avere qualche problemino con la sua stessa maggioranza. Se fino a pochi giorni fa Tsipras poteva contare su 162 deputati (149 di Syriza e 13 dei nazionalisti di Anel), oggi la situazione è più complicata: sabato sera Syriza ha già perso 17 voti e altri 15 parlamentari ieri sui giornali ellenici hanno preannunciato che non voteranno l’intesa europea, così come i 13 del vecchio partito socialista panellenico. Posto che i neonazisti di Alba Dorata sono inconvincibili così come i comunisti del Kke, a Tsipras non resterebbe che fare affidamento sui voti di To Potami (movimento recente fortemente europeista) e addirittura di Nea Demokratia, il partito dell’austerity dell’odiato Antonis Samaras contro cui Tsipras ha vinto lo scorso febbraio.
Insomma per il premier greco questi giorni saranno decisivi: se vincerà solo con l’aiuto delle forze politiche esterne senza ricompattare Syriza resterà premier, ma non certo leader. A meno che non convinca il proprio elettorato di aver fatto tutto il meglio e di essere stato tradito da alcuni colleghi di partito. È difficile, ma non impossibile: ai grandi camaleonti può riuscire anche questo.