Gli zingari, enigma e rimorso
Nella mia vita non ho avuto un buon rapporto con questo popolo nomade. Ma non possiamo dimenticare l'enigma della loro storia e l'olocausto che hanno subito...
L’altro giorno Andrea Tornielli in un articolo accennava ai lavavetri ai semafori delle nostre strade e ciò mi ha fatto venire in mente il rapporto non particolarmente buono con coloro che oggi, in nome del politicamente corretto, chiamiamo Rom o migranti, ma che sono sempre stati chiamati zingari.
Quando abitavo a Milano un giorno mi ritrovai con la porta fatta a pezzi e la casa svuotata. Il brigadiere di turno, dal quale mi ero recato per la denuncia, mi accolse scuotendo la testa: «Un altro…». Mi spiegò che c’era un inamovibile accampamento sotto un cavalcavia poco distante da casa mia e mi disse che una dopo l’altra venivano ripulite molte abitazioni del quartiere. Mi consigliò anche, se c’era qualcosa tra ciò che mi avevano rubato alla quale io tenessi particolarmente, di recarmi lì, di trattare con gli zingari e di pagare un riscatto.
Un’altra volta comprai una bicicletta nuova fiammante, appena tornato a casa la chiusi in cantina, il giorno dopo la cantina era stata forzata e la bici non c’era più. Ancora: un giorno Rosanna, mia moglie, tornava a casa in treno. Alla stazione di Brescia vide sul marciapiede un nomade, appunto, che sembrava cercare di parlarle. Ingenuamente si alzò per aprire il finestrino, quando si rigirò la borsetta sul sedile non c'era più: pazienza per i soldi, ma c'erano anche i documenti e le carte di credito, giorni e giorni di seccature per le denunce e i rinnovi. Ogni giorno, qui all’abbazia di Maguzzano, vedo la stessa scena: arrivano degli zingari con un macchinone di quelli che per fare il pieno ci vogliono settanta euro, parcheggiano dietro l’angolo. Scende una zingara alla quale viene dato un bambino, assume un’aria dolente e viene a bussare ai frati per ricevere aiuti e generi alimentari.
Al di là dei buonismi, bisogna ammettere che in molti casi ci troviamo di fronte ad atteggiamenti irritanti. Va però a mio avviso riconosciuto che ci troviamo anche di fronte a un mistero e a un rimorso. Il mistero è dato dal fatto che si tratta di un popolo senza scrittura e senza storia: pare che arrivino dall’India, sono giunti in mezzo a noi nel XV secolo. Non posso dimenticare ciò che disse il filosofo francese Henri Bergson, il quale individuava negli ebrei, negli omosessuali e negli zingari i tre popoli sempre presenti in mezzo a noi ma al tempo stesso non assimilabili. Bergson li chiamava «i tre popoli ospiti» e per lui rappresentavano un interrogativo storico e, in qualche modo, teologico sul quale riflettere.
Nel caso degli zingari tutti i tentativi di stabilizzarli, di renderli stanziali, sono falliti. Non intendono condividere i nostri valori, non rispettano le nostre leggi anche se vogliono che noi rispettiamo le loro. Oltre al mistero c’è però anche il rimorso. Dobbiamo ricordare infatti che gli zingari sono finiti nei lager nazisti insieme agli ebrei e agli omosessuali. Gli ebrei erano contraddistinti dalla stella gialla, i gay dal triangolo rosa, gli zingari – considerati dai nazisti degli asociali da eliminare – portavano il triangolo nero.
Al processo di Norimberga non furono convocati testimoni omosessuali o zingari, e dunque questi altri due genocidi non vennero tenuti nell’adeguata considerazione. Il rimorso è dato anche dal fatto che proprio loro, gli zingari, dopo la liberazione dai campi di sterminio, essendo nomadi, non avevano neppure un posto dove tornare. E negli Stati delle potenze vincitrici erano in vigore delle leggi contro il nomadismo, che resero molto triste e difficile per loro anche il dopoguerra.
Di fronte a certi comportamenti a dir poco irritanti degli zingari nelle nostre città, dobbiamo dunque recuperare il senso dell’enigma e del rimorso che questo popolo deve ispirarci.
(testo raccolto dalla redazione e non rivisto dall’autore)