Gli Usa ci vendono missili che non saranno mai usati
Gli Stati Uniti hanno deciso, a quasi 4 anni dalla formale richiesta italiana, di consentire la vendita di quasi 300 missili Hellfire e bombe a guida laser e satellitare per un valore di quasi 130 milioni di dollari destinati ad armare una parte alcuni del 12 droni in dotazione alla nostra Aeronautica militare.
Gli Stati Uniti hanno deciso, a quasi 4 anni dalla formale richiesta italiana, di consentire la vendita all’Aeronautica Militare di quasi 300 missili Hellfire e bombe a guida laser e satellitare per un valore di quasi 130 milioni di dollari destinati ad armare una parte alcuni del 12 droni che equipaggiato il 32° Stormo di Amendola (Foggia). Lo ha reso noto l’Agenzia della Difesa per la Sicurezza e la Cooperazione del Pentagono. L’Italia è stato, infatti, il primo Paese della Nato ad acquisire i droni prodotti dalla General Atomics, prima 6 MQ-1 Predator, poi altri 2 per compensare i velivoli perduti in incidenti e infine 6 più grandi MQ-9 Reaper impiegati in Iraq, Afghanistan, Libia e attualmente in Kuwait per le operazioni contro l’Isis in Iraq.
Washington finora aveva sempre respinto la richiesta di fornirci anche le armi da imbarcare su velivoli teleguidati utilizzati di conseguenza solo per missioni di sorveglianza con telecamere e sensori, ma senza bombe e missili, armi negate anche agli altri acquirenti dei Reaper e Predator cioè francesi, olandesi e turchi, ma non ai britannici, ritenuti alleati fedelissimi che sono stati autorizzati addirittura a impiegare sui loro Reaper missili “made in Uk” Brimstone già utilizzati in Afghanistan contro i talebani e in Iraq contro l’Isis. La possibilità di imbarcare armi di precisione consente l’impiego ottimale dei droni che, grazie alla lunga autonomia, possono cercare e individuare i bersagli colpendoli al momento giusto mentre privi di armi possono solo svolgere la prima parte della missione lasciando ad altri mezzi aerei la conduzione dell’attacco con una dilatazione dei tempi operativi e un incremento dei costi del tutto ingiustificato.
Le resistenze alla vendita di questo tipo di armamenti agli alleati più fedeli hanno visto la fiera opposizione di ambienti militari e del Congresso che vorrebbero garantire in esclusiva agli Stati Uniti la possibilità di combattere con i droni. Uno stallo che sembrava indurre italiani e altri alleati Nato a rivolgersi altrove per armare i loro velivoli teleguidati di costruzione statunitense, soluzione utile a scavalcare i rifiuti di Washington ma complessa sul piano tecnologico e costosa a causa della difficoltà a integrare software di gestione delle armi con quello dei velivoli. Come aveva rilevato il Washington Post già nel febbraio scorso, dietro all’improvvisa apertura del Pentagono vi sarebbero proprio le pressioni dell’industria statunitense, timorosa di perdere clienti ora che la tecnologia dei droni e i loro armamenti è diffusa a un buon livello anche in Russia, Cina, Corea del Sud, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti e in altri Paesi.
«La tecnologia resta qui», avevano dichiarato i funzionari del Pentagono sentiti dal Wp circa i trasferimenti di tecnologia precisando che «avere alleati attrezzati in modo appropriato» rappresenta un vantaggio per gli Stati Uniti che potrebbero così “appaltare” le operazioni contro insorti e terroristi in alcune aree. Una possibilità su cui Washington farebbe forse meglio a non contare, almeno nei confronti dell’Italia, alleato fedele e pronto, ad esempio, a restare ancora a lungo in Afghanistan, ma poco disponibile a combattere dal cielo come conferma anche il rifiuto (unico Stato tra i 22 membri della Coalizione anti-Isis) a vietare ai 4 Tornado basati in Kuwait insieme a 2 droni Reaper di lanciare ordigni sui terroristi islamici. Nel 2016 l’Italia avrà quindi l’opportunità di utilizzare al meglio in ruoli bellici e d’attacco i suoi Reaper ma, paradossalmente, non sembra avere la capacità politica di impiegare per bombardare i velivoli militari, siano essi con o senza pilota a bordo.