Gli Sbagliati
Per l'acutezza delle argomentazioni contro l'aborto nel pieno della campagna che avrebbe poi portato all'approvazione della Legge 194, ripubblichiamo l'articolo di Claudio Magris “Gli sbagliati” apparso la prima volta sul Corriere della Sera del 3 febbraio 1975.
Dittatore mite e bonario, Cesare cercò di perdonare e di graziare i propri avversari politici, ma fece strangolare Vercingetorige. Non si può fargliene colpa, perché non sapeva, e forse non poteva capire, che anche Vercingetorige era un uomo, pur non essendo un romano. Questa difficoltà di riconoscere gli uomini sembra ripresentarsi di continuo. In un recente articolo sul «Corriere» Giuseppe Montalenti si sofferma, nell’ambito della discussione sull’aborto, sui casi nei quali si ha la certezza che la persona concepita sia affetta da minorazioni gravissime e incurabili. Non ho, ovviamente, nulla da obiettare alle precise argomentazioni scientifiche di Montalenti, che fa un elenco dettagliato delle malformazioni accertabili già nelle primissime fasi dell’esistenza di un individuo. Mi sembra tuttavia sorprendente il tono col quale vengono presentati questi casi clinici, i conflitti di coscienza che essi instaurano e la tragedia che essi rappresentano. Montalenti parla della nascita di un «individuo gravemente tarato» come di una «iattura, talvolta per l’individuo stesso, sempre per i genitori e gli altri familiari, nonché per la comunità, alla quale in ultima analisi risalgono le responsabilità morali e materiali della cura e del mantenimento di questi individui incapaci di provvedere a se stessi e bisognosi di cure» (i corsivi sono miei).
Dopo aver notato come la «selezione naturale» provveda spesso ad eliminare, nel caso di aborti spontanei, gli «individui sbagliati», soggiunge: «Quindi, provvedendo all’eliminazione di altri individui sbagliati, casualmente sfuggiti alla selezione, non si fa altro che completare, perfezionare un processo naturale». Dunque, la soppressione di un minorato non appare più il gesto disperato di chi ritiene, a torto o a ragione, di risparmiargli una vita di dolore, non è una tragica decisione dettata dall’amore per quell’individuo e attuata per il suo e solo per il suo interesse; non è l’eutanasia, che la legge non può ammettere per gli arbitri pratici cui essa potrebbe dar luogo ma che merita rispetto e sospensione di giudizio morale per la sofferenza che coinvolge chi l’accetta. L’individuo sbagliato, cioè il minorato, il focomelico, il malato mentale e così via, nell’amplissimo ventaglio di menomazioni e inferiorità nel quale i cosiddetti sani relegano tutti coloro cui essi negano la dignità umana, riceve o no il diritto di esistere non in base alla preoccupazione per la sua sorte, bensì alla preoccupazione per i fastidi e gli oneri arrecati alla società: spese, necessità di mutare situazioni sociali e istituzioni pedagogiche e così via.
Questa logica, che nell’articolo di Montalenti è applicata soltanto in riferimento ai casi estremi e drammatici, è la medesima che presiede all’accettazione disinvolta e sbrigativa dell’aborto in generale: anche in questo caso l’esistenza di una persona viene subordinata ai sentimenti che altri provano nei suoi riguardi, ai moti affettivi o viscerali che essa suscita o meno.
La vita di un uomo è una curva ininterrotta dal momento del concepimento a quello della morte, una curva che procede verso il potenziamento per poi declinare verso il progressivo impoverimento biologico e intellettuale, che è esposta alle aggressioni del talidomide, della denutrizione, delle carenze affettive o dell’emarginazione sociale e non conosce soluzioni di continuità. Fra il cosiddetto neonato (salutato dal fiocco rosa o azzurro e portato incosciente al fonte battesimale) e un uomo di vent’anni c’è più differenza di quanta ce ne sia tra il medesimo neonato e lui stesso al settimo mese di gestazione o fra questo settimo mese e il quarto, o fra il quarto e il secondo e così via. Ciò che varia è il rapporto affettivo e sociale che gli altri instaurano con questo essere: si è più legati a un figlio di tre anni che a un figlio di tre ore, si soffre diversamente per una persona a seconda che muoia nel pieno delle sue qualità e dei suoi rapporti con noi oppure in uno stadio di età o di malattia che l’abbia da tempo esclusa da ogni relazione attiva. Ma la reazione sentimentale di un uomo non è il metro della realtà di un altro.
Per evitare guai all’accomodante pragmatismo cattolico, qualche ingegnoso teologo scoprirà forse che l’anima viene insufflata al secondo o al terzo mese di gestazione, ben sicuro che comunque è impossibile dimostrare il contrario; i confessori sono sempre stati indulgenti in tema di aborto, come su tutto ciò che accade e svanisce in silenzio, ben più preoccupati di condannare il concubinato, il divorzio, i liberi modi di amare. Ma se dell’anima si può parlare impunemente, è per fortuna più difficile misconoscere la verità del corpo, così splendidamente rivendicata da Pasolini, uno dei pochissimi nostri poeti capaci di testimoniare l’integrità del vivere.
Dietro il dibattito sull’aborto sta una realtà che trascende anche questo problema, sta la giustificazione e l’accettazione delle cose così come sono, lo spaventoso culto borghese dei fatti. Non si tratta di infierire su chi commette l’aborto sotto la pressione di barbariche situazioni sociali; quando nel Faust Margherita, sola e disperata, uccide il neonato, essa desta solidarietà e comprensione, che non implicano approvazione o indifferenza nei confronti dell’infanticidio.
La prima colpa dell’aborto risiede certo nella nostra società feroce che addossa ogni responsabilità alla donna, che emargina e rifiuta la ragazza madre, che trascura ogni iniziativa per porre realmente i figli naturali o abbandonati in condizioni di parità, che ostacola i mezzi anticoncezionali; è dello stato che non persegue l’aborto quand’esso viene praticato nell’ovattato silenzio di cliniche frequentate da rispettabili borghesi e gestite da stimati professionisti. Ciò che però è stridulo nella campagna per l’aborto è la disinvoltura igienista, il tono allegro e baldanzoso che riduce una situazione tragica alla rivendicazione della libertà di fumare in classe o a una misura igienico-profilattica. Una settimana fa, in un dibattito a Trieste, il pubblico, compatto, rideva e si divertiva come all’avanspettacolo.
Combattuta con questo spirito, la campagna per l’aborto è una delle forme in cui si palesa quella persuasione totale delle coscienze, cui stiamo assistendo, ad accettare qualsiasi cosa.
Un premio Nobel per la medicina ha paragonato l’interruzione della maternità alla distruzione dell’abbozzo di un edificio rispetto a quella di un edificio completo, scordando che l’uomo è qualitativamente diverso da un progetto architettonico, sia esso Santa Maria del Fiore, le rovine di Cnosso o il palazzo della Rinascente. L’indifferenza appare paurosamente estensibile a piacere; stiamo forse avvicinandoci a poco a poco a un grande massacro, al momento in cui nemmeno l’attuale iniqua distribuzione dei mezzi di sostentamento potrà garantire l’attuale ingiusto equilibrio: la «selezione naturale», ovvero il dominio dei più forti, assumerà l’aspetto diretto del massacro e la nostra coscienza sarà pronta ad allargare il novero degli «individui sbagliati», a stabilire chi sia sbagliato e rispetto a chi, quale sia il quoziente di capacità affettiva e intellettiva necessario per riconoscere agli altri la dignità umana, chi sia irrecuperabile, a chi sia lecito disconoscere ogni scintilla di personalità.
La coscienza borghese, che si scandalizza delle scelte amorose difformi dalla norma corrente, accetta invece questo «processo naturale» (malattie, minorazioni, morti) come una provvidenza della natura che si preoccupa di selezionare, di diminuire il numero degli aventi diritto a partecipare alla spartizione dei brevi beni che la vita può offrire. Non intendo certo attribuire a Montalenti opinioni che so bene egli non professa, ma mi pare di non poter sottacere la preoccupazione per il tono ottimista o neutrale con cui si parla degli individui sbagliati — o, nel caso dell’aborto, non voluti — e con cui si sancisce questa situazione.
Analoga è la concezione regressiva, così spesso affermata, secondo la quale la legge dovrebbe comunque adeguarsi al costume, rispecchiare e sanzionare i fatti. Se così fosse, le leggi razziste dell’Alabama sarebbero giuste perché si adeguano al costume razzista imperante, e lo stesso varrebbe per le leggi di Norimberga, che s’adeguavano al diffuso antisemitismo, o per le attenuanti concesse al delitto d’onore, che riflettevano un costume comune. La legge democratica, rivoluzionaria deve incidere sul costume, tendere a correggerlo e a modificarlo; ha giustamente abolito le attenuanti concesse al delitto d’onore, e non già per infierire su un disgraziato coatto dal suo ambiente, bensì per non rafforzare quel costume e quella coazione. La «non scritta legge degli dei», per la quale si batte Antigone contro il tiranno della città, è la legge di ciò che deve essere, non di ciò che è; la tensione alla libertà, non la codificazione della schiavitù.