Gli inglesi votano per l'Ue da cui potevano esser già fuori
Gli inglesi vanno al voto per le elezioni europee, mentre il governo è ancora nel tunnel nella sua crisi. La May non molla, non rassegna le dimissioni. In compenso, le rassegnano tutti gli altri: ieri è toccato alla Leader dei Comuni, Andrea Leadsom, la 36ma che lascia l'esecutivo per protesta contro la gestione della Brexit.
Gli inglesi vanno al voto per le elezioni europee, mentre il governo è ancora nel tunnel nella sua crisi. La May non molla, non rassegna le dimissioni. In compenso, le rassegnano tutti gli altri: ieri è toccato alla Leader dei Comuni (circa l’equivalente del nostro ministro dei Rapporti con il Parlamento), Andrea Leadsom, presentare le sue dimissioni. E’ il 36mo caso di dimissioni dal governo May, il 21mo causato dalla gestione May della Brexit. La premier tergiversa, accetta compromessi, annacqua i contenuti e il sospetto sempre più forte è che voglia segretamente restare nell’Ue. La vera notizia, comunque, è la prima: i cittadini britannici votano per le europee. Mentre dovevano essere fuori dall’Ue già dal 29 marzo scorso.
La crisi del governo nasce, come sempre, dal tentativo della premier Theresa May di presentare e far accettare l’accordo raggiunto con Bruxelles per un’uscita consensuale e ordinata del Regno Unito dall’Ue. Uscita “ordinata” che, secondo le condizioni europee, significa mantenere almeno una frontiera aperta di terra fra l’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e la Repubblica di Irlanda (membro dell’Ue). Questo confine di terra rende molto complicata l’uscita. Se resta aperto, infatti, è l’Ue che chiede al Regno Unito di continuare a conformarsi alle regole del mercato comune europeo. In caso di frontiera chiusa, invece, le conseguenze sarebbero ancora peggiori. Di fatto salterebbero gli accordi del Venerdì Santo, che posero fine alla lunga guerra nordirlandese. Già la crescita dell’attività terroristica della New Ira (il 23 aprile in uno scontro a fuoco è stata uccisa la giornalista Lyra McKee, a Derry) è un segnale preoccupante. Il piano di uscita concordata propone un “backstop” letteralmente una rete di sicurezza, per cui la frontiera fra le due Irlande resta aperta, ma il Regno Unito rimane temporaneamente nell’unione doganale europea. Questo piano è già stato bocciato più volte dal Parlamento, nonostante sia stato di volta in volta modificato.
Le ultime varianti dell’accordo presentate da Theresa May includono la possibilità di votare in Parlamento per indire un eventuale secondo referendum sulla Brexit. Una vera bomba per chi ritiene che si sia temporeggiato fin troppo e che per il 29 marzo voleva già essere fuori dall’Ue. La May, oltre a ciò, promette di tornare al voto su varie opzioni di accordo doganale con l’Ue, inclusa la proposta di una unione doganale temporanea per le sole merci (“compromesso doganale”). Poi include il vincolo legale per il Regno Unito per cercare alternative al “backstop” dell’Irlanda del Nord entro il 2020. La promessa che l’Irlanda del Nord rimarrà entro lo stesso regime doganale del Regno Unito, qualunque cosa succeda con l’Ue. Nuove leggi sul lavoro per far sì che gli attuali standard vengano mantenuti o migliorati dopo la Brexit (chiara concessione al Partito Laburista, che ha partecipato al negoziato).
Secondo la Leadsom, queste proposte, soprattutto quella che riguarda la possibilità di un secondo referendum, sono state eccessive. Troppi compromessi, tanto da mettere a rischio lo stesso percorso di uscita del Regno Unito. E ormai è più che un sospetto, da parte dei Conservatori, che la May stia tergiversando apposta per impedire la Brexit, non per implementarla come da suo mandato (e d’altra parte, nel referendum del 2016, era una Remainer, aveva fatto campagna contro la Brexit). Secondo la Leadsom, un secondo referendum è “pericolosamente divisivo” e si oppone al fatto stesso che il governo lo prenda in considerazione. Un secondo referendum, ha scritto la Leadsom, “rischia di minare la coesione dell’Unione, che noi vogliamo appassionatamente veder rafforzata”.
Se la Leadsom ha rassegnato le dimissioni, altri ministri, fra cui quello degli Esteri Jeremy Hunt, quello degli Interni Sajid Javid, hanno chiesto un incontro riservato con la May per esprimerle tutte le loro perplessità in merito alla nuova bozza di accordo. La May non li ha voluti incontrare. Pubblicamente ha dichiarato che la sua bozza di accordo sarà sufficiente a traghettare il Regno Unito fuori dall’Ue. E si oppone a un secondo referendum. Però, se permette al Parlamento di votare per indirlo, rischia grosso. Ed è questo che i parlamentari conservatori le rimproverano.
Ieri pareva essere l’ultimo giorno di premiership della May, in compenso. Perché il “Comitato 1922”, massimo organo di controllo (benché informale) del Partito Conservatore avrebbe potuto riunirsi per decidere di cacciarla. Letteralmente cacciarla, cambiando le regole interne al Partito, in quella che ironicamente ma non troppo chiamano “opzione nucleare”. Forse perché si era alla vigilia delle elezioni, l’atomica partitica non è stata lanciata sulla premier.
In ogni caso, a causa di questo continuo psicodramma, i conservatori sanno di rischiare grosso in queste elezioni. Gli ultimi sondaggi li danno addirittura sotto il 10%, a contendersi un terzo posto fra Verdi e Liberaldemocratici. Sarebbero molto sotto i Laburisti. E ancor più sotto al Brexit Party, creato dal leader euroscettico Nigel Farage per vendicare una Brexit vincente alle urne ma finora tradita dal governo. Potrebbe essere questa la vera sorpresa del voto europeo: un Brexit Party primo partito britannico, nuovo vero Partito Conservatore. Potrebbe essere la beffa finale alla premier May.