Gli equivoci di Saint-Saëns su san Pio X e la musica sacra
Il 16 dicembre di cento anni fa moriva Camille Saint-Saëns, grande musicista, compositore e critico musicale. Ma in quest’ultima veste mosse rilievi grossolani al motu proprio di san Pio X sulla musica sacra, Tra le sollecitudini. Delle due l’una: o non lo lesse o non lo capì. E i suoi abbagli danno una conferma di ciò che serve al buon musicista di chiesa…
Un secolo fa, il 16 dicembre 1921, moriva ad Algeri un poliedrico musicista, protagonista indiscusso del secondo romanticismo in Francia, come pianista virtuoso, organista e improvvisatore abilissimo, compositore prolifico ed eloquente critico musicale: Camille Saint-Saëns. Era nato 86 anni prima, il 9 ottobre 1835, a Parigi.
Fanciullo prodigio, dopo gli studi di pianoforte e composizione al conservatorio di Parigi, fu organista a Saint-Merry (1853-1857) e alla chiesa della Madeleine (1857-1877) e allargò la sua fama dando concerti in molti Paesi. Compositore in tutti i generi; nel suo catalogo di oltre 200 lavori troviamo: 15 opere, tra le quali il capolavoro del Samson et Dalila (1877); 3 sinfonie, di cui ricordiamo la Terza in do minore con organo, op. 78; 5 concerti per pianoforte, 3 per violino: 2 per violoncello, tra cui il fortunato Concerto in la minore (1879): 4 poemi sinfonici, tra cui la celebre Danse macabre (1875); tanta musica da camera, compresa la gustosa «fantasia zoologica» intitolata Carnaval des animaux (1886); senza dimenticare la musica religiosa e anche sacra.
Critico musicale - come accennavamo - per diversi periodici parigini, fu austero, polemico e radicato nella tradizione, nonostante le rivoluzioni musicali di Wagner, Liszt, del devoto allievo di pianoforte Fauré, di Debussy, Schönberg e Stravinski, dal nostro conosciute personalmente.
Ed è proprio un suo articolo riguardante il celebre motu proprio di san Pio X sulla musica sacra, Tra le sollecitudini, a trattenere la nostra attenzione. In tale scritto dal titolo La réforme de la musique religieuse, apparso sul quotidiano francese Le Figaro del 7 maggio 1904, il maestro parigino comincia con il ringraziare profondamente «Sua Santità Pio X per l’interesse che mostra in modo così cospicuo per la musica religiosa». Tuttavia, gli rimane da sapere se il Papa «abbia sempre trovato luce sufficiente da chi poteva consigliarlo e se, volendo estirpare la zizzania, non si sia esposto a distruggere anche una parte del grano buono». A tale serio interrogativo Saint-Saëns risponde con un ragionamento che lascia molto perplessi. Infatti, il canto gregoriano è «una lingua morta», di cui «dopo tanti secoli abbiamo perso la chiave», egli sostiene. «Le interminabili serie di note, le fastidiose ripetizioni hanno fatto indietreggiare gli interpreti più coraggiosi. Immaginate passaggi come questo: la do la do la do - la do la do - la do la do la do la do, e così per intere pagine». Che esagerazione in quelle ripetizioni! Solo uno sprovveduto di canto gregoriano può parlare così.
E non viene neppure risparmiata la polifonia, che, secondo lui, «non è una lingua morta, ma una lingua malata, le cui tradizioni sono andate perdute» e, ancor peggio, «la cui melodia è quasi interamente bandita». E rincara la dose, domandandosi come sia «particolarmente religiosa questa polifonia». Ad esempio, «i madrigali profani di Palestrina […] differiscono poco dalla musica religiosa, loro contemporanea; cantati con parole latine, sembrerebbero ai nostri moderni ascoltatori esempi dello stile religioso più puro». Al celebrato compositore sfugge completamente che fu la polifonia - nata, sviluppata e vissuta in chiesa - ad uscire dalle chiese e a essere impiegata per usi profani, senza perdere l’insito carattere religioso? Benché un’aria d’opera come Ombra mai fu, nota come il Largo di Handel, tanto per citare un esempio, possa essere oggi considerata sacra, la distanza di tempo dalla sua composizione generalmente non crea il mistero e, pertanto, il carattere misterioso del pezzo non è insieme carattere religioso. O qualcuno pensa che tra uno o due secoli i nostri brani musicali di scarso valore artistico e di poco impegno, in particolare canzoni e ballabili, potranno passare per sacri, dimenticando la loro origine e primitiva destinazione?
Non s’illude affatto san Pio X quando raccomanda che «le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani» (Pio X, Tra le sollecitudini, n. 5). Sebbene si faccia fatica talvolta a distinguere tra sacro e profano, tutti possono comprendere il significato di quelle parole pontificie.
Il musicista di Parigi è irritato dal fatto che il Requiem di Mozart sia «incluso tra le opere proscritte! Se il famoso Requiem è bandito, dobbiamo concludere che tutte le messe di questo periodo siano state bandite, siano esse di Mozart, Haydn o Beethoven? Le opere di Jommelli, di Porpora e di Marcello subiranno la stessa sorte?». Ma dove mai si troverebbe una tale censura nel documento di papa Sarto? Quel «codice giuridico della musica sacra» presenta le regole generali per stabilire quanto un pezzo di musica risponda al carattere di musica sacra e «alle esigenze della vera musica liturgica» (n. 6). I numeri 10 e 11 ben definiscono almeno la forma esterna (ampiezza inclusa) delle sacre composizioni. Il numero 12, poi, chiarisce il ruolo della voce sola, che non «s’intende del tutto esclusa», ma «non deve mai predominare nella funzione» come in un concerto, conservando il più possibile «il carattere di musica da coro».
Il maestro francese cade nell’ultimo equivoco grossolano quando scrive che «il Papa ripudia i violini e gli altri strumenti profani; egli proscrive assolutamente l’impiego di strumenti rumorosi, piatti, tromboni, ecc. Tutto ciò a prima vista pare molto giudizioso, ma non resiste a un esame più approfondito». E le quattro ragioni di quell’esame addotte dal nostro musicista sono di poco peso. Eppure i numeri 15-21 del motu proprio si occupano dell’organo e degli strumenti musicali, permessi, «ma non mai senza licenza speciale dell’Ordinario», a patto che partecipino «di tutte le qualità che ha la vera musica sacra».
Saint-Saëns o non ha letto san Pio X o se l’ha letto non l’ha inteso. È possibile che egli non conoscesse l’opera prestata dai monaci benedettini di Solesmes, a poco più di 250 chilometri da Parigi, per la riscoperta del canto gregoriano originale? È possibile che egli non avesse compreso non soltanto la riforma di papa Sarto ma l’essenza stessa della musica sacra? Con gli abbagli del maestro parigino si ha un’ulteriore prova di quanto sia necessario che il buon musicista di chiesa, oltre alla formazione generale e musicale, abbia un’anima profondamente cristiana. Infatti, come soleva dire Domenico Bartolucci (1917-2013), venerato maestro di chi scrive, «il cantore in chiesa non fa l’artista; fa il predicatore, ovvero predica cantando».