Giovanni Lindo Ferretti: la preghiera di un libero cantore
"Óra. Difendi conserva prega" è un testo che il cantautore dell'Appennino definisce «atto terapeutico». Tra versi di canzoni e orazioni si snoda un itinerario il cui filo conduttore sono i ricordi della nonna da cui apprese a pregare. Il ritorno alla fede è in realtà un ritorno a casa dell'uomo consapevole della sua miseria e grandezza che si lascia stupire e salvare dall'Incarnazione.
È difficile racchiudere Giovanni Lindo Ferretti in una definizione come cantautore o scrittore, che direbbero ben poco del personaggio. Un accenno indiretto di biografia si può cogliere nel susseguirsi delle sigle dei gruppi di cui è stato voce: dal gruppo “punk filosovietico” CCCP-Fedeli alla Linea (dove CCCP equivaleva ai caratteri cirillici di URSS) e poi ai C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti, ma anche la Comunità degli Stati Indipendenti che all’URSS era subentrata), quindi ai PGR (Per Grazia Ricevuta). «Libero cantore», come si definisce oggi, nelle sue parole riecheggia un animo «montano italico cattolico romano» – parole cantate, pronunciate o scritte, o tutte queste cose insieme, talvolta salmodiate, il che vale specialmente per Óra. Difendi conserva prega (Compagnia editoriale Alberti, Reggio Emilia 2022).
È un libro che pare inciso nella pietra con parole scandite secondo il consueto stile di Ferretti, dove ogni suono ha un peso quasi materiale e sfogliando le pagine sembra riecheggiare nella mente con la voce arcana e arcaica del cavaliere-eremita di Cerreto Alpi. Un libro che l’autore definisce «un atto terapeutico». Non è un “trattato” sulla preghiera, piuttosto è intriso di preghiera, che raccoglie «accadimenti e pensieri sedimentati attorno la preghiera nelle diverse età del mio vivere». Come un ritorno a casa, Ferretti è passato da un tempo in cui non pregava più a far sua la triade pasoliniana: difendi conserva prega, dove quest’ultimo «è un imperativo assoluto, va fatto». Il titolo Óra è insieme latino e italiano: ora, cioè «prega», ma anche óra, adesso.
È «un ragionevole atto, intimo e sociale», ma «la maggior parte delle persone che frequento, la quasi totalità di quelle a cui voglio bene non pregano, non ne conoscono necessità, non possono beneficiarne». Anche i bambini ne restano privi, a differenza di lui che apprese le prime preghiere nel lettone della nonna: «su bimbo segnati con la mano destra / in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti». Si parlava in dialetto e si pregava in latino, in continuità con le generazioni passate ma ancora presenti, con le quali vige ancora una misteriosa comunione: «...non siamo soli. Ci sono i morti, la grande famiglia che si perde nella notte dei tempi». In fondo è grazie ai morti che la preghiera è giunta fino ai vivi: «I miei avi pregavano».
Il legame con gli antenati affiora di continuo nelle opere – scritte e cantate – di Giovanni Lindo Ferretti, perché «c’è una storia: uomini e donne, genealogie e parentele…», che risale a tempi remoti, barbarici, nel bene e nel male, di «convertiti, peccatori renitenti e penitenti». Un «mondo di sangue, crudele, carnale» che solo l’Incarnazione poteva commuovere: è «la Madre col Bambino» affacciata ovunque nelle antiche strade e case (ed è proprio dall’Ave Maria che parte il “florilegio” di preghiere del “breviario” ferrettiano). In quel «mondo materiale e spirituale scalzato dalla strada asfaltata e dalla televisione», dice Ferretti, «ho imparato a pregare, ho smesso, ho ricominciato». E tra il Pater e il Gloria Patri si riannoda il filo della «liturgia domestica quotidiana», che dava senso al lavoro e poi anche alla sofferenza: «La recita del Rosario è stata, negli anni della vecchiaia e malattia di mia madre, la nostra ancora di salvezza».
È svanita la liturgia domestica insieme alla nostra civiltà che era fondata sull’ora et labora: pregare e lavorare sono ora sostituiti da “libertà e sviluppo”, “produci e consuma”, dal mito del progresso. «Progrediamo», commenta lapidario Ferretti, che ha vissuto in prima persona quel rovesciamento: «quando con i primi peli le idee impazzano smettere di pregare mi è parsa una conquista di libertà». Allora era la nonna a sgranare il Rosario per il nipote nell’ininterrotto scambio di affetto tra lei che si preparava ad abbandonare il mondo e lui, che nel mondo in fibrillazione voleva entrarci, «partecipe del cambiamento, affascinato dal nuovo, libero da condizionamenti sociali e religiosi», fino a bestemmiare «per emancipazione», ma senza cessare di lasciarsi attrarre da una pieve romanica o una cattedrale gotica.
L’insoddisfazione si affacciò «sul finire di un’imprecisata giovinezza» e Ferretti rievoca la verità dei suoi «giorni di bimbo, la mia mano nella mano di mia nonna», alla casa natale in fondo mai abbandonata. Un pomeriggio d’autunno di quegli anni «punkettoni» se ne tornò sui monti, canticchiando una melodia («Madre di Dio e dei suoi figli / Madre dei padri e delle madri…») che conteneva una parola quasi dimenticata: «anima». Nella babele tecnologica la preghiera apre uno spiraglio «che concede al finito di percepire, accedere all’Infinito».
La fede riemersa anche dai cassetti della nonna, gli si rivela ancora con particolare densità in Benedetto XVI: «Avrei obbedito a ogni suo cenno», confessa Ferretti, tanto è stato decisivo il suo pontificato: «un momento di grazia quotidiana». Dopo la sconvolgente rinuncia («un dolore fisico, mi ha annebbiato la mente») ha l’occasione, il «dono», di incontrarlo, «gli occhi penetranti di luce a schermare una barriera orante, dolente, compassionevole». Da Benedetto il pensiero corre alla fede dell’infanzia, a quelle orazioni «pregate da sempre», che «mi sono state tramandate e sento il bisogno di tramandarle» e alla «sacralità palpabile» della liturgia tridentina vissuta da bambino «a cuor contento», densa come l’incenso che saliva fino al cielo.
Si cantava in quel tempo, di cui pure ricorda le fatiche (e qualche scappellotto perché «in paese, l’educazione dei bimbi era affare di tutti»), si cantava «a voce piena» ovunque, in chiesa e nei campi, al lavoro e nella festa, con alti e bassi da far «tremare il cuore» rievocando «un arcaico ormai incomprensibile». Ferretti attinge preghiera e canto a quel mondo di «carne redenta dall’Incarnazione». Una nota non casuale perché nella sua musica c’è carne e anima, c’è tutta la miseria e la grandezza dell’uomo – che avanza «tra sbandamenti e maldestri tentativi di fuga», consapevole dei mali e dei dolori propri e altrui, lasciandosi scuotere dall’Infinito che riecheggia (e salva) di generazione in generazione.