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PAPA

Gioia, croce e preghiera. Così si diventa apostoli

Nel weekend del 6-7 luglio Francesco ha incontrato i seminaristi e le novizie. La vocazione non nasce da una decisione, ma da una risposta alla chiamata del Signore. I tre punti richiamati durante l'omelia: la gioia, la croce e la preghiera.

Editoriali 08_07_2013
Papa Francesco

Nel week-end del 6-7 luglio 2013 Papa Francesco ha incontrato prima in una lunga chiacchierata informale, a braccio, e poi nella Messa in San Pietro i seminaristi, le novizie e i novizi. A loro ha detto, nell’omelia della Messa, che «se la Chiesa è la Sposa di Cristo, in un certo senso voi ne raffigurate il momento del fidanzamento». Questo momento, ha aggiunto, non nasce da una mia soggettiva decisione ma dalla chiamata del Signore. Sabato aveva insistito sul fatto che «diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! Ma è la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore». Solo facendo continuamente memoria – e questo, ha aggiunto il Papa, vale anche per la vocazione al matrimonio – che ogni nostra scelta è sempre risposta a una chiamata del Signore – potremo tenere fermi i tre punti richiamati nell’omelia, come sempre didatticamente divisa in tre parti: la gioia, la croce e la preghiera. 

Quanto al primo punto, Francesco è partito dal «grande invito alla gioia» di Isaia nella prima lettura della domenica. Israele ha attraversato tempi durissimi: un po’ come noi oggi. Eppure Isaia parla al popolo di gioia. «Perché? Qual è il motivo di questo invito alla gioia? Perché il Signore effonderà sulla Città santa e sui suoi abitanti una “cascata” di consolazione, una cascata di consolazione – così pieni di consolazione –, una cascata di tenerezza materna: “Sarete portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati”». Ragionando in termini semplicemente umani forse oggi, come ai tempi di Isaia, non ci sarebbero molti motivi di gioia. Eppure, con la vocazione, il Signore ci chiede di portare la gioia agli altri. «Ma ne possiamo essere portatori se sperimentiamo noi per primi la gioia di essere consolati da Lui, di essere amati da Lui». «Io ho trovato alcune volte – ha detto il Papa nell’omelia – persone consacrate che hanno paura della consolazione di Dio, e… poveri, povere, si tormentano, perché hanno paura di questa tenerezza di Dio. Ma non abbiate paura». La vocazione della persona consacrata è quella di ogni cristiano: «trovare il Signore che ci consola e andare a consolare il popolo di Dio. Questa è la missione. La gente oggi ha bisogno certamente di parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la misericordia, la tenerezza del Signore, che scalda il cuore, che risveglia la speranza, che attira verso il bene».

Sabato – nello stile di un incontro informale – Papa Francesco aveva detto che spesso la missione dei sacerdoti e dei religiosi fallisce perché i fedeli non li percepiscono affatto come portatori di gioia. Il fedele capisce allora che «qualcosa qui non va! Manca la gioia del Signore […]. Non c’è santità nella tristezza, non c’è! Santa Teresa [d’Avila, 1515-1582] – ci sono tanti spagnoli qui e la conoscono bene – diceva: “Un santo triste è un triste santo!”. E’ poca cosa… Quando tu trovi un seminarista, un prete, una suora, una novizia, con una faccia lunga, triste, che sembra che sulla sua vita abbiano buttato una coperta ben bagnata, di queste coperte pesanti… che ti tira giù… Qualcosa non va! Ma per favore: mai suore, mai preti con la faccia di “peperoncino in aceto”, mai!». E il Papa ha aggiunto che si tratta spesso di un problema di celibato: una scelta il cui valore Francesco ha difeso, spiegando però che spesso oggi è subita anziché abbracciata con gioia e fatta fiorire nella fecondità dell’apostolato. «La radice della tristezza nella vita pastorale sta proprio nella mancanza di paternità e maternità che viene dal vivere male questa consacrazione, che invece ci deve portare alla fecondità. Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi: questo non è cattolico! Questo non è cattolico!».

Secondo punto della vocazione: la croce. San Paolo, ha spiegato il Pontefice nell’omelia, parla delle piaghe di Gesù come «del contrassegno, del marchio distintivo della sua esistenza di Apostolo del Vangelo». Solo «se rimaniamo dentro questo mistero noi siamo al riparo sia da una visione mondana e trionfalistica della missione, sia dallo scoraggiamento che può nascere di fronte alle prove e agli insuccessi. La fecondità pastorale, la fecondità dell’annuncio del Vangelo non è data né dal successo, né dall’insuccesso secondo criteri di valutazione umana, ma dal conformarsi alla logica della Croce di Gesù, che è la logica dell’uscire da se stessi e donarsi». Naturalmente deve trattarsi della croce di Cristo, «perché a volte ci offrono la croce senza Cristo: questa non va!». 

Conversando sabato con i giovani impegnati nel cammino vocazionale, Francesco li ha esortati anzitutto alla povertà materiale. L’accenno ai seminaristi e sacerdoti che, come tanti laici, perseguono «la ricerca dell’ultimo modello di smartphone, lo scooter più veloce, l’auto che si fa notare» ha colpito molti giornalisti, che ne hanno fatto quasi l’unico argomento della lunga conversazione. In realtà, come fa sempre, il Papa ha denunciato insieme a eventuali casi di mondanità materiale presenti nel clero la piaga più insidiosa della mondanità spirituale. Il segno di questa seconda mondanità è la fuga – anche di preti e suore – dalla confessione, o il passaggio da un confessore all’altro per non confrontarsi veramente con il proprio peccato. «È triste – ha detto Francesco – quando uno trova un seminarista, una suora che oggi si confessa con questo per pulire la macchia; domani va con l’altro, con l’altro, con l’altro: una “peregrinatio” ai confessori per nascondersi la sua verità. Trasparenza! È Gesù che ti sta sentendo. Abbiate sempre questa trasparenza davanti a Gesù nel confessore!». Un monito che non vale solo per seminaristi e suore.

Terzo elemento: la preghiera. «Gli operai per la messe – ha detto il Papa nell’omelia – non sono scelti attraverso campagne pubblicitarie o appelli al servizio della generosità, ma sono “scelti” e “mandati” da Dio. È Lui che sceglie, è Lui che manda, è Lui che manda, è Lui che dà la missione. Per questo è importante la preghiera». Un sacerdote, un religioso, una religiosa, ma anche un laico che non prega cade vittima della mondanità spirituale e spesso anche dell’arbitrio dottrinale. «La Chiesa, ci ha ripetuto Benedetto XVI, non è nostra, ma è di Dio; e quante volte noi, i consacrati, pensiamo che sia nostra! Facciamo di lei… qualcosa che ci viene in mente. Ma non è nostra, è di Dio». La stessa missione «non è feconda, anzi si spegne nel momento stesso in cui si interrompe il collegamento con la sorgente, con il Signore». Francesco ha citato un professore di seminario che gli diceva: «“évangéliser on le fait à genoux”, l’evangelizzazione si fa in ginocchio. Sentite bene: “l’evangelizzazione si fa in ginocchio”». Per chi non prega «la missione diventa mestiere. Ma da che lavori tu? Da sarto, da cuoca, da prete, lavori da prete, lavori da suora? No. Non è un mestiere, è un’altra cosa».

Tutto questo – aveva detto il Pontefice nella conversazione di sabato – oggi non è facile perché viviamo in un mondo che cerca di convincerci che tutto è effimero e niente è definitivo. «Ho sentito – ha confidato il Papa – un seminarista, un bravo seminarista, che diceva che lui voleva servire Cristo, ma per dieci anni, e poi penserà di incominciare un’altra vita… Questo è pericoloso! Ma sentite bene: tutti noi, anche noi più vecchi, anche noi, siamo sotto la pressione di questa cultura del provvisorio; e questo è pericoloso, perché uno non gioca la vita una volta per sempre. Io mi sposo fino a che dura l’amore; io mi faccio suora, ma per un “tempino…”, “un po’ di tempo”, e poi vedrò; io mi faccio seminarista per farmi prete, ma non so come finirà la storia. Questo non va con Gesù!». La «cultura del provvisorio», manifestazione del relativismo, «ci bastona tutti, perché non ci fa bene: perché una scelta definitiva oggi è molto difficile. Ai miei tempi era più facile, perché la cultura favoriva una scelta definitiva sia per la vita matrimoniale, sia per la vita consacrata o la vita sacerdotale. Ma in questa epoca non è facile una scelta definitiva. Noi siamo vittime di questa cultura del provvisorio. Io vorrei che voi pensaste a questo: come posso essere libero, come posso essere libera da questa cultura del provvisorio? Noi dobbiamo imparare a chiudere la porta della nostra cella interiore, da dentro», chiudere la porta al relativismo e al culto del provvisorio.

Ma per questo è necessaria una vera vita spirituale che nello stesso tempo sia vita apostolica, capacità di «uscire» ed evangelizzare. «Non imparate da noi – ha detto ancora il Papa ai giovani – quello sport che noi, i vecchi, abbiamo spesso: lo sport del lamento! Non imparate da noi il culto della “dea lamentela”. È una dea quella… sempre col lamento…. Ma siate positivi, coltivate la vita spirituale e, nello stesso tempo, andate […]. Non abbiate paura di uscire e andare controcorrente. Siate contemplativi e missionari. Tenete sempre la Madonna con voi, pregate il Rosario, per favore… Non lasciatelo!» «La diffusione del Vangelo – ha concluso il Papa nell’omelia – non è assicurata né dal numero delle persone, né dal prestigio dell’istituzione, né dalla quantità di risorse disponibili. Quello che conta è essere permeati dall’amore di Cristo, lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, e innestare la propria vita nell’albero della vita, che è la Croce del Signore». E sotto la croce incontriamo Maria, che ci aiuta «a non avere paura della gioia»: il che vuol dire, nello stesso tempo, non avere paura della croce.