Ginevra 2, per la Siria la pace resta lontana
Nuove bombe in Libano e Yemen alla vigilia della conferenza internazionale sulla Siria, dalla quale non ci si aspetta comunque grandi risultati. Perché la Siria è solo il fronte più visibile di una grande guerra tra sunniti e sciiti.
Anche se tutti la chiamano da mesi Ginevra 2 si apre oggi a Montreaux (per non dare troppo fastidio al Salone dell'orologeria). Ma l'attesa conferenza internazionale sulla Siria a Ginevra ci arriverà comunque: succederà venerdì, quando tutti sperano che si svolga davvero il faccia a faccia tra la delegazione del governo di Bashar al Assad e i ribelli che da ormai tre anni si combattono nella grande carneficina di cui l'Onu ha addirittura smesso ormai di conteggiare i morti.
Non si apre certo nel migliore dei modi Ginevra 2, dopo l'incredibile balletto di lunedì quando il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon - dopo un invito last minute inviato anche all'Iran - è stato costretto a ritirarlo per via della minaccia della Coalizione nazionale siriana (la rappresentanza politica del fronte dei ribelli, sostenuta anche da Washington) che altrimenti non avrebbe partecipato ai lavori. Motivo? Il fatto che Teheran avesse parlato di trattativa «senza precondizioni». Che, tradotto in parole povere, significa senza sottoscrivere a priori quella «transizione senza Assad» sulla quale quasi venti mesi fa i cinque grandi del Consiglio di sicurezza dell'Onu si erano accordati (si è visto con quanta convinzione) in occasione del vertice che viene chiamato Ginevra 1.
Chiunque sappia qualcosa di Medio Oriente sa bene che proporre una precondizione del genere oggi all'Iran è come chiedergli una capitolazione. Eppure la mossa della Coalizione nazionale siriana - e dei suoi potenti padrini a Riyad e nei Paesi del Golfo - è servita a mettere in chiaro una cosa: chi è il nemico vero nella guerra che si sta combattendo sulla pelle della Siria. Perché nessuno nel fronte dei ribelli può essere così ingenuo da non sapere che sulla questione Assad oggi anche la Russia e la Cina la pensano esattamente come l'Iran. Anche ammesso che Mosca e Pechino ci credessero sul serio nel giugno 2012, da allora la situazione sul campo in Siria è profondamente cambiata.
Così oggi - in un Paese dove si combatte in maniera sempre più sanguinosa e si è pigiato l'acceleratore sulle divisioni confessionali - non ha alcun senso nel breve vagheggiare una specie di «governo delle larghe intese» che guidi il Paese fino a nuove elezioni. Il massimo a cui si può aspirare è una tregua in un Paese di fatto smembrato. Senza contare poi che è cambiata anche la situazione intorno alla Siria, con la guerra tra sunniti e sciiti che infuria sempre di più a tutto campo dallo Yemen a Beirut (passando ovviamente per l'Iraq).
A ricordarlo ieri mattina sono arrivate puntuali due notizie tragiche. La prima dal Libano con una nuova autobomba in una roccaforte di Hezbollah, il partito sciita reo di combattere in Siria a fianco delle truppe di Damasco. Tra i quattro morti c'è anche Maria el-Jawhari, 18 anni, che appena quindici giorni fa - in occasione dell'ennesimo altro attentato avvenuto poco lontano - aveva scritto sul suo profilo Facebook: «L'ho scampata bella per la terza volta». Parole chiare, da cui si capisce bene che cosa significhi oggi vivere in certe zone della capitale libanese. Contemporaneamente un'altra cosa interessante ieri succedeva a Sanaa, nella capitale dello Yemen: un commando di sicari colpiva a morte Ahmad Sharafeddin - un delegato di un movimento sciita - mentre si stava recando alla sessione conclusiva del negoziato che (guarda a caso, anche in quel Paese) dovrebbe provare a far dialogare tra loro sunniti e sciiti. Forse anche lì adesso dovremo aspettare una Sanaa 2.
Lo scriviamo da tempo: c'è una guerra regionale in corso in Medio Oriente, di cui la carneficina quotidiana che avviene sulla pelle dei siriani è solo il volto più evidente. Una guerra brutta, sporca e cattiva, come sono tutte le guerre. E che per essere fermata ha bisogno di mettere intorno a un tavolo tutti quelli che stanno muovendo le pedine. Lasciare fuori l'Iran da Ginevra 2 - invece - significa abbassare le ambizioni. Vuole dire che il massimo a cui si può aspirare è che l'Arabia Saudita e i suoi alleati - se ci fossero le condizioni minimali per un accordo con l'esercito siriano - siano disposti a qualche timido segnale di tregua, giusto per non umiliare del tutto Washington. Ma senza che la guerra con l'Iran - in Siria come altrove - sia finita. Del resto la primavera araba ha offerto loro sul piatto d'argento la possibilità di regolare i conti con Teheran. E adesso non hanno alcuna intenzione di lasciarsela sfuggire.
L'aspetto paradossale di tutto questo è che siamo andati avanti per anni a sventolare lo spauracchio di un attacco israeliano all'Iran. Senza vedere che quella guerra era stata già pianificata e cominciata altrove, con altri interessi. Anche per questo - oggi - è diventato così difficile fermarla.