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FUKUSHIMA UN ANNO DOPO

Giappone, lezioni da un terremoto

L'incidente alla centrale nucleare aggravò la tragedia dello tsunami, ma i suoi danni effettivi sono stati limitati. Fine del nucleare? Niente affatto.

Attualità 09_03_2012
Centrale di Fukushima
L’11 marzo di un anno fa il Giappone veniva colpito da un violento terremoto, uno dei più forti della storia, e successivamente da uno tsunami spaventoso, che in alcuni punti è entrato nella terra ferma di 20-30 chilometri. E’ come se uno tsunami nel Tirreno provocasse onde che arrivano e distruggono fin nel centro di Roma. E’ infatti allo tsunami che si deve la stragrande maggioranza di danni e vittime. Il bilancio ufficiale parla infatti di 16mila morti accertati e più di 4mila dispersi; oltre 190mila evacuati, 4milioni di case senza elettricità, 70mila case senza acqua, 500mila edifici completamente distrutti, più di 1700 strade danneggiate, oltre 50 ponti caduti e una diga crollata. In aggiunta lo tsunami ha provocato l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima. E’ bene ricordare tutto ciò, perché in questi giorni sui giornali e in tv si parla quasi esclusivamente di nucleare, come se l’unica cosa accaduta in Giappone un anno fa fosse stato l’incidente della centrale e le vittime fossero da mettere in relazione a questo.

Non diciamo ciò per minimizzare quanto accaduto a Fukushima, ma è giusto collocare l’incidente nucleare nel quadro complessivo.

Detto questo, resta il fatto che nell’immaginario collettivo il terremoto dell’11 marzo resta collegato alla paura della catastrofe nucleare, e allora anche su questo è giusto fare chiarezza dato che in questi mesi si sono date notizie inesatte o volutamente manipolate.

Partiamo dunque dall’inizio, da cosa ha provocato l’incidente. Sicuramente c’è stato un evento estremo, di una potenza inimmaginabile, ma le inchieste condotte dopo l’incidente hanno messo in evidenza delle mancanze e degli errori che ci fanno dire che – non importa la gravità dell’evento - l’incidente poteva e doveva essere evitato.
Sia la Commissione internazionale dell’Aiea (l’Agenzia atomica internazionale) sia la Commissione di indagine giapponese hanno indicato i difetti organizzativi, procedurali di controllo e di struttura. Che coinvolgono dal governo alla struttura di gestione dell’emergenza, dall’autorità di sicurezza giapponesi fino alla Tepco, la società di gestione degli impianti.

Si tratta di gravi responsabilità anzitutto sul piano strutturale-organizzativo: mancanza di indipendenza del controllo di sicurezza, una non chiarezza nella gestione delle responsabilità, la mancanza gravissima nella capacità di comunicare in modo corretto e tempestivo con il pubblico. Certo, quest’ultimo fatto non provoca morti, ma provoca delle conseguenze psicologiche molto pesanti perché fa vivere la gente nell’insicurezza e fa perdere credibilità e fiducia nelle istituzioni.

C’è poi l’aspetto tecnico: la struttura protettiva della centrale era già stata alzata da 3,1 metri a 5,6. Ma alcuni studi fatti dalla Tepco che simulavano un sisma già avvenuto in un’altra parte del Giappone, stimavano la possibilità di onde alte in un caso 15 metri e in un altro 9 metri, comunque tutti e due ben superiori ai 5,6 metri realmente preparati. Come mai nessuno ha fatto nulla?
Malgrado tutto ciò i danni effettivi provocati dai reattori di Fukushima sono fortunatamente limitati. Quanto alla radioattività quella uscita da Fukushima è un decimo di quella immessa nell’ambiente a Chernobyl. E proprio il confronto con Chernobyl ci porta al secondo aspetto: a Fukushima, pur in questa situazione catastrofica generata dal sisma e dallo tsunami, l’impianto ha reagito in modo da lasciare il tempo a 90mila persone di evacuare l’area (teniamo conto che era un reattore degli inizi della seconda generazione, cioè abbastanza vecchio). Ragion per cui alla popolazione non sono arrivate dosi importanti di radioattività. L’esatto opposto di quanto avvenuto a Chernobyl dove c’è stata invece l’esplosione e la gente, non essendo neanche stata avvertita di quanto successo, non è stata neanche evacuata.

A distanza di un anno rimane il problema della radioattività nel terreno che, davanti alla centrale e nel territorio circostante è stato contaminato (è stata evacuata la popolazione residente in un raggio di 20 chilometri intorno alla centrale). Oggi non ci sono più immissioni radioattive in aria o in acqua. E anche i test effettuati sono positivi. Dei 14mila campioni di vegetali e carne raccolti negli ultimi mesi, solo 76 hanno dato tracce di radioattività superiore ai minimi. Oggi resta il divieto di mangiare alcuni tipi di vegetali.

In ogni caso si sta provvedendo alla rimappatura dell’area che verrà suddivisa in tre zone a seconda dei livelli di contaminazione. In ogni caso entro marzo 2014 sarà completata la bonifica della maggior parte del territorio contaminato e la maggior parte della popolazione potrà tornare a vivere laddove era prima dello tsunami. Ovviamente se ne avrà voglia, perché il danno vero per la popolazione, da non sottovalutare, è quello psicologico. E qui la comunicazione, che deve essere precisa, trasparente e tempestiva, è fondamentale. Dipende certamente del governo e delle autorità per la sicurezza, ma una grande responsabilità ce l’hanno i media, che spesso privilegiano titoli e articoli allarmistici a scapito della correttezza.

Ne è un esempio anche la percezione di quanto sta avvenendo nel campo delle strategie energetiche nel dopo-Fukushima. Molta gente è stata indotta a pensare che il nucleare si sia fermato e che nel futuro non se ne farà più niente. Ma è esattamente il contrario. Come è successo per l’incidente di Three Miles Island e per quello di Chernobyl, anche Fukushima è l’occasione per rendere ancora più sicuri gli impianti nucleari. Non dimentichiamo che tra le attività umane, l’industria nucleare è quella che vanta i massimi livelli di sicurezza, come si può ricavare anche dalle statistiche sulla mortalità per tipo di fonte di energia.

Il primo passo sono stati i famosi stress test che hanno fatto praticamente in tutto il mondo: Cina, Europa, Giappone, Stati Uniti, tutti si sono fermati e provato come i reattori in esercizio reagirebbero a eventi estremi, tipo Fukushima. Sta emergendo che i livelli di sicurezza di tutti questi reattori sono buoni, anche per i primi di cui sono disponibili i dati in Giappone (su 54 reattori, ne sono stati spenti 52).

Poi ci sono i reattori nuovi, quelli di terza generazione, che già stanno costruendo in Cina, in Europa e negli Usa. Questi fin dalla fase di progettazione hanno già considerato non tanto la resistenza all’evento iniziale, quanto la risposta a un evento oltre ogni previsione che portasse alla fusione del nocciolo. Quindi non solo un miglioramento nella prevenzione di incidenti dovuti a eventi estremi o imprevedibili, ma sistemi per gestire l’incidente che non è stato possibile prevenire. Ecco, questi nuovi reattori eviteranno il rilascio all’esterno di radioattività, una volta che si sia fuso il nocciolo.
In ogni caso nel mondo, le reazioni negative sono state molto limitate: il Giappone, anzitutto, che ha chiuso 52 reattori su 54. Il precedente governo si era mostrato deciso a chiudere con il nucleare, ora il nuovo governo ci sta ripensando, perché la bolletta dell’energia è salita vertiginosamente, dato che per supplire a quel 30% di energia elettrica che prima fornivano le centrali nucleari, il Giappone compra gas, petrolio, carbone.

Poi c’è la Germania: oltre alla ipersensibilità tedesca per i temi ambientali, c’è la decisione politica del cancelliere Angela Merkel, che l’anno prima ha deciso di estendere la vita dei vecchi reattori, ora ha deciso di chiuderli. Una decisione evidentemente elettorale, che però la dice lunga sull’affidabilità di certi politici. C’è da tener conto che l’autorità di sicurezza tedesca aveva espresso parere positivo sugli impianti attivi in Germania, ma la Merkel ha convocato una commissione etica, sulle cui conclusioni ha preso la decisione di chiudere 8 centrali e tenere in funzione le altre 7 fino al 2022. Risultato: da esportatore netto è la Germania è diventata importatore netto di energia elettrica da Francia e Repubblica Ceca (che la producono con il nucleare). Che poi questa sia la decisione definitiva è tutto da vedere: ci sono problemi di finanziamento per le energie rinnovabili e già si sente il problema del costo della bolletta energetica.

Quanto alla Svizzera, ha rinunciato a costruire le 3 nuove centrali programmate, e chiuderà i reattori attualmente in funzione nel 2034, cioè a fine vita. In pratica si tratta di un rinvio della decisione, visto che da qui al 2034 molte cose possono succedere.
Per l’Italia poi sappiamo tutti come è andata a finire, il referendum esclude che si riapra la materia prima di 5 anni.

Ma questi sono gli unici casi negativi al mondo, che invece registra un boom di nuove centrali (63 già in costruzione), in cui la Cina fa ovviamente la parte del leone, con 26 centrali, seguita da Russia (10) e India (7). Ma ci sono anche molti paesi che hanno in programma di entrare nel nucleare, tra cui Polonia, Turchia, Brasile, e Sudafrica.

Il nucleare dunque è tutt’altro che morto: non si è fermato dopo Three Miles Island, non si è fermato dopo Chernobyl, non si fermerà neanche dopo Fukushima.