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"BLASFEMIA"

Giacarta: islamici contro il governatore cristiano

Tensione in Indonesia: il governatore di Giacarta, cinese e cristiano, è accusato di blasfemia. 200mila musulmani hanno marciato nel centro della capitale. Una fonte locale della NBQ: "Difficile distinguere l'aspetto religioso da quello politico, quale sia il pretesto e quale la causa. Sicuramente c’è una componente fanatica che vuole islamizzare la società".

Libertà religiosa 03_12_2016
Il governatore "Ahok"

Tensione alle stelle in Indonesia, la nazione musulmana più popolosa del mondo: il governatore di Giacarta, cinese e cristiano, è formalmente accusato di blasfemia. Dopo una protesta di radicali islamici il 4 novembre, ieri 200mila musulmani hanno di nuovo sfilato nel centro della capitale in una manifestazione che, grazie alla mediazione di autorità civili (incluso il presidente Joko Widodo, intervenuto personalmente) e religiose, si è conclusa senza incidenti. Ma il caso è tutt’altro che chiuso ed è lo specchio di una nazione che rischia di radicalizzarsi.

Una massa imponente, richiami di preghiera del venerdì, slogan scanditi all’unisono da centinaia di migliaia di musulmani. E’ questo lo scenario che si è presentato sotto le finestre dei cittadini di Giacarta, ieri pomeriggio. Chiedevano l’arresto del governatore Basuki Tjahaja Purnama, detto “Ahok”. Amato dalla maggioranza della popolazione (70% di tasso di consenso), difensore dei diritti delle minoranze religiose, il 1 ottobre scorso, in un discorso pubblico aveva citato il Corano per chiedere di non strumentalizzare politicamente la religione. L’11 ottobre, il Consiglio degli ulema indonesiani (Mui) ha chiesto alla polizia di Jakarta di compilare una denuncia contro Ahok per diffamazione del Corano. L’ala giovanile del Muhammadiyah (movimento islamico moderato) ha chiesto la condanna del politico per blasfemia.

Le prime manifestazioni si sono svolte il 4 novembre: 100mila islamici in piazza per chiedere il processo e la condanna del governatore. Dopo aver espresso il suo appoggio al suo ex vice, Joko Widodo non ha voluto incontrare i rappresentati della protesta. I radicali islamici, offesi anche per questa assenza, hanno inscenato scontri con la polizia. E alla protesta è seguita anche l’incriminazione formale. Il 10 novembre, meno di una settimana dopo, il generale Ari Dono Sukmanto, capo detective, ha detto che gli ispettori hanno ascoltato 40 testimoni e raccolto “prove” sufficienti per aprire un fascicolo. Ahok è tuttora a piede libero, ma non può lasciare il Paese. Intanto montava ancora la marea islamica radicale. La polizia ha arrestato diversi provocatori, alcuni identificati come affiliati allo Stato Islamico.

Nella manifestazione di ieri, non si sono verificati incidenti, sia perché la polizia ha arrestato preventivamente gli elementi più facinorosi, sia perché il presidente, contrariamente a quel che aveva fatto il 4 novembre scorso, si è mostrato in pubblico. “Le due parti, gli organizzatori e le autorità, si sono venute incontro – ci spiega una fonte locale de La Nuova Bussola Quotidiana – Da una parte gli islamisti volevano organizzare una preghiera per le strade nel quartiere centrale di Giacarta, in una zona ricca di grandi hotel e uffici, anche per bloccare il cuore della città. Dall’altra, la polizia aveva incominciato a lanciare il segnale: chi partecipa a questa manifestazione si macchia di alto tradimento. Alla fine si è convenuto di fare la manifestazione attorno al Monumento Nazionale e farla diventare un momento di preghiera collettiva, dandole un’impronta più religiosa che politica. Il presidente, unendosi alla massa per la preghiera islamica, ha ulteriormente smorzato la tensione. Ora, però, la manifestazione si è conclusa, ma i problemi che l’hanno causata sono ancora tutti irrisolti”.

“Dopo la manifestazione del 4 novembre – ci spiega la nostra fonte – il presidente stesso ha dichiarato che vi fossero intenti di destabilizzazione dello Stato, rivolti contro la sua persona. E’ difficile distinguere i due aspetti, quello religioso e quello politico, quale sia il pretesto e quale la causa genuina. Sicuramente c’è una componente fanatica che vuole islamizzare la società. Ma c’è stata anche una polemica recente fra il presidente attuale e il predecessore, che è accusato più o meno velatamente di essere alle spalle di queste proteste contro Ahok. Anche perché il figlio dell’ex presidente è l’altro candidato governatore nelle prossime elezioni a Giacarta. Questa massa di gente, povera gente portata qui da varie parti del paese, cosa ne sa di tutti questi intrighi?”. L’accusa di blasfemia al governatore si basa sul suo discorso contro la strumentalizzazione del Corano a fini politici, ma “anche questo pomeriggio (ieri, per chi legge), un esponente islamico ha ribadito il principio che non si deve permettere a un non-musulmano di essere eletto governatore”. Anche tutta l’istruzione del processo “è stata velocissima e sa di mossa politica. Un modo per dire al popolo: ‘pensiamo noi a processarlo, quindi non avete più motivo di protestare’. Ma dall’altra parte, i radicali islamici pensano: ‘se noi protestiamo, le autorità lo processano’. E quindi vanno avanti nella loro battaglia, chiedendone anche l’arresto. Uno degli avvocati difensori del governatore si è chiesto che speranza avremmo di ottenere un processo imparziale, libero dalla pressione popolare”.

Sul clima di radicalizzazione in Indonesia, i dati diffusi dall’ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre lo riassumono così: più di 1000 chiese chiuse d’autorità dal 2006 ad oggi, 236 episodi di violenza religiosa nel 2015 (un terzo in più rispetto al 2014). Secondo il sondaggio dell’Istituto Setara, il 50% dei giovani della capitale e della provincia di Giava Ovest, vorrebbe l’introduzione della sharia come legge di Stato. Ad Aceh, per la prima volta, nel 2016 è stato condannato alla bastonatura un cristiano che non rispettava la legge coranica. La settimana scorsa sono stati frustati due fidanzati, accusati di adulterio perché si mostravano assieme in pubblico. “Ma anche nel resto del paese – ci spiega la nostra fonte – si osserva una crescita dell’islam radicale nella società. Molte autorità locali hanno sfruttato l’autonomia per introdurre leggi che recepiscono la sharia. Centinaia di indonesiani (le statistiche non sono precise, né pubbliche) si sono arruolati nelle file dell’Isis. Il caso più recente di terrorismo domestico è di novembre: l’attentato dinamitardo a una chiesa protestante di Samarinda, nel Borneo, conclusosi con la morte di una bambina. Ad agosto è stata colpita una chiesa cattolica a Sumatra. A gennaio era stato attaccato il centro di Giacarta. Ci sono ex terroristi, come quello che ha ucciso la bambina a Samarinda, che erano ufficialmente ‘de-radicalizzati’, secondo le autorità. E si è visto come ha funzionato male il suo reinserimento nella società. Ci sono gruppi radicali, come l’Fpi, che agiscono come se fossero forze di polizia religiosa. Ad esempio, qui a Giacarta, un gruppo dell’Fpi ha denunciato alla polizia una festa di omosessuali. Gli atti omosessuali fra adulti non sono reato, in questo caso specifico non sono state nemmeno raccolte prove, ma la polizia è intervenuta ugualmente per arrestare tutti i presunti partecipanti e rilasciarli due giorni dopo. Questo vuol dire che i radicali islamici stanno iniziando a influenzare e intimidire le autorità dello Stato”.

C’è speranza che la radicalizzazione non attecchisca in una popolazione mite come quella indonesiana. “Procedendo controcorrente rispetto alla manifestazione di oggi (ieri, per chi legge), nove persone su dieci sorridevano vedendo un uomo europeo. Una su dieci non sorrideva subito, ma rispondeva al sorriso. Se non c’è un’opera assidua di istigazione alla violenza, gli indonesiani, per loro indole, non scateneranno l’odio contro le minoranze. Il governo ha una grande responsabilità su come affronterà la radicalizzazione”.