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SHOAH

Germania, un giovane su 5 non sa cos'è Auschwitz

Lo rivela un sondaggio shock di Stern. Ma per capirlo bene occorre ricordare che tra i giovani tedeschi dalla memoria corta vi sono molti islamici.

Attualità 31_01_2012
Berlino, la porta di Brandeburgo
Un giovane tedesco su cinque non sa cosa sia Auschwitz: ma di quale tedesco si tratta?

La notizia è stata lanciata nei giorni scorsi, appena prima della Giornata della Memoria, ed è frutto di una ricerca svolta dalla società berlinese “forsa” per conto del settimanale Stern: il 21% dei tedeschi d’età compresa tra 18 e 30 anni non sa che “Auschwitz” indica il nome di un campo nazista di concentramento e di annientamento. Diverso quanto emerso rispetto agli over 30, dei quali il 95% è risultato essere in grado di dire che cosa accadde in quel luogo. Il dato giustamente ha fatto emergere qualche preoccupazione, ma non sono emersi (ancora) particolari approfondimenti. Ed è questo a risultare ancor più allarmante.

Lo stesso settimanale si è limitato a fornire i dati, ma per poterli comprendere appieno sarebbe stato utile ricevere qualche informazione in più sui soggetti interpellati dall’istituto di ricerca. Eppure sarebbe interessante (e forse decisivo) sapere, in particolare riguardo ai giovani, se quando si parla di "tedeschi" s’intendono (com’è immaginabile e giusto che sia) anche nati in Germania figli d'immigrati. È sviante, e si rischia perfino di far assumere alla ricerca tratti razzisti, se si parla di "giovani tedeschi" (tanto più facendo domande sulla Shoah) senza tenere conto di famiglia d'origine, formazione, contesto culturale, religione ecc. Ma forse si preferisce non indagare troppo Si potrebbe scoprire, per esempio, che quel quinto di giovani che ignora il significato di Auschwitz comprende soprattutto ragazzi con alle spalle famiglie dove si pratica la religione islamica. O comunque ragazzi appartenenti a quelle “società parallele” sempre più diffuse nella società tedesca (ma sarebbe meglio dire ormai in tutta Europa) costruite per lo più da immigrati arrivati da paesi extraeuropei. Con troppa superficialità negli ultimi anni in Germania un modello banale di multiculturalismo ha fatto credere nella possibilità di un’integrazione senza particolari doveri da parte dei nuovi arrivati sul suolo tedesco.

Il tema è grave e c’è una grande necessità di confronto e studio della realtà, al di là dei buoni intenti. Ma non sempre chi cerca di approfondire e rompere tabù (magari con qualche provocazione) viene accolto favorevolmente dai custodi del mainstream. Non può non venire in mente quanto accaduto due anni fa con Thilo Sarrazin, l’ex banchiere della Bundesbank e ministro socialdemocratico del Land Berlino, vittima di una vera e propria caccia alle streghe per aver denunciato, dati alla mano, i limiti dell’integrazione tedesca, in particolare sul tema della formazione dei giovani figli d’immigrati. Già nel 2009 con un’intervista a Lettre International sosteneva che la crisi economica e sociale di Berlino dipendesse dal fatto che «i turchi e gli arabi che vi abitano grazie agli aiuti dallo Stato tedesco» non fanno «alcuno sforzo per integrarsi», e piuttosto guardano al Paese che dà loro lavoro e benessere «con ostilità, senza occuparsi ragionevolmente dell'istruzione dei propri figli». Successivamente, nel 2010, con il libro La Germania demolisce se stessa, del quale non a caso sono state vendute più di un milione e 200mila copie, Sarrazin ha approfondito il tema fornendo una serie impressionante di dati. Eppure c’è stato chi, come la cancelliera Angela Merkel, l’ha giudicato negativamente “a priori”, rifiutandosi pubblicamente di leggerlo. «»In Germania», scriveva nel libro il tuttora iscritto alla SPD, «lavora un esercito di addetti all’integrazione, di ricercatori specializzati sull’islam, di sociologi, di politologi e di rappresentanti di associazioni mano nella mano con politici sprovveduti, tutti intensamente impegnati a minimizzare, ad auto-ingannarsi e a negare i problemi».

Ecco, tornando alla notizia del quinto dei non meglio specificati “giovani tedeschi” ignoranti Auschwitz, si ha l’impressione che questo dato preoccupante difficilmente ispirerà tentativi d’approfondimento. E la ragione potrebbe essere proprio quella ricordata da Sarrazin due anni nel suo libro. Ci si chiede allora: che senso ha lanciare generici allarmi sulla perdita della memoria storica se poi si ha paura di scoprirne le cause?