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VIAGGIO APOSTOLICO

"Genocidio". Il Papa in Armenia non ha paura

Pur rischiando un incidente diplomatico con la Turchia, Papa Francesco usa la parola "genocidio" nel corso della sua visita in Armenia, nel corso del suo incontro con il presidente Serzh Sargsyan. L'ha pronunciata parlando a braccio, andando oltre il testo scritto. "Non bisogna avere paura di chiamare le cose con il proprio nome", aveva detto il Pontefice nel 2015.

-PIZZABALLA TORNA A GERUSALEMME di Giorgio Bernardelli

Ecclesia 25_06_2016
Yerevan, memoriale del genocidio

Il primo giorno del viaggio apostolico in Armenia di Papa Francesco è ruotato intorno a una parola: “genocidio”, in riferimento alla tragica persecuzione subita dal popolo armeno per mano degli Ottomani all’inizio del ‘900. Tutto faceva pensare che il Papa quella parola non l’avrebbe pronunciata durante questo viaggio, invece, così non è stato.

Il 12 aprile 2015 in un saluto speciale rivolto ai fedeli di rito armeno Papa Francesco, richiamando le parole di Giovanni Palo II del 2001, disse che quello subito dal popolo armeno costituiva a tutti gli effetti «il primo genocidio del XX secolo». Questo suo chiaro riferimento causò l’irritata reazione dei turchi che arrivarono perfino a richiamare in patria (“per consultazioni”) il proprio ambasciatore Mehmet Pacaci. In Turchia si parlò di “inaccettabile calunnia”. 

L’incidente diplomatico fece sobbalzare qualche sedia in Segreteria di Stato, ma il Papa nell’omelia di Santa Marta del 13 aprile disse chiaramente che «non bisogna avere paura di chiamare le cose con il proprio nome». La cosa poi rientrò, grazie a un paziente lavoro di ricucitura con i turchi, e tutto lasciava presagire che quella parola non si sarebbe più pronunciata.

Invece, durante il suo discorso di ieri davanti al presidente Serzh Sargsyan, alle autorità politiche e diplomatiche dell’Armenia, Papa Francesco, ad un certo punto, ha alzato gli occhi dal testo scritto e alla parola «tragedia» del testo ha specificato con «genocidio».

«Quella tragedia, quel genocidio – ha aggiunto - inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli».

Così il «Grande male», il “Metz Yeghéer” come lo chiamano in Armenia, è stato nuovamente indicato come «genocidio», senza tanti giri di parole. Non solo, Papa Francesco ha fatto anche un’altra sottolineatura a braccio che è molto significativa. «È tanto triste – ha specificato - sia in questo armeno come negli altri due (riferendosi al genocidio degli ebrei e quello causato dal comunismo, nda), le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte». 

Il viaggio del Papa in Armenia, che ha soprattutto un sapore ecumenico, ha preso così una piega molto interessante per tutte le vicende che riguardano un’area ancora oggi attraversata da persecuzioni e guerre violente. «Oggi, in particolare i cristiani, come e forse più che al tempo dei primi martiri, sono in alcuni luoghi discriminati e perseguitati per il solo fatto di professare la loro fede, mentre troppi conflitti in varie aree del mondo non trovano ancora soluzioni positive, causando lutti, distruzioni e migrazioni forzate di intere popolazioni. È indispensabile perciò che i responsabili delle sorti delle nazioni intraprendano con coraggio e senza indugi iniziative volte a porre termine a queste sofferenze, facendo della ricerca della pace, della difesa e dell’accoglienza di coloro che sono bersaglio di aggressioni e persecuzioni, della promozione della giustizia e di uno sviluppo sostenibile i loro obiettivi primari».

Anche per questo il lavoro ecumenico con la Chiesa Apostolica Armena, una chiesa molto vicina a quella cattolica e antichissima, diventa importante. Lo ha ricordato il Papa durante la visita di preghiera alla cattedrale apostolica, rivolgendosi al Patriarca Karekin II. «Il mondo – ha ricordato ancora Francesco - è purtroppo segnato da divisioni e conflitti, come pure da gravi forme di povertà materiale e spirituale, compreso lo sfruttamento delle persone, persino di bambini e anziani, e attende dai cristiani una testimonianza di reciproca stima e fraterna collaborazione, che faccia risplendere davanti ad ogni coscienza la potenza e la verità della Risurrezione di Cristo».

Questa testimonianza dei cristiani, nella persecuzione che stanno subendo in Medio Oriente, per il Papa prende la forma del «martirio», come aveva ricordato in un recente incontro a Roma incontrando la comunità di Villa Nazareth. Lì aveva specificato che la parola «genocidio» non si addice, appunto, a questa persecuzione che è un «martirio». Mentre, ancora una volta, ha fatto capire che la parola «genocidio» va benissimo quando si tratta delle immani tragedie del secolo scorso. Insomma, sembra proprio che il Papa sia rimasto fedele a ciò che disse nell’omelia di Santa Marta del 13 aprile 2015: «non bisogna avere paura di chiamare le cose con il proprio nome».