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L'ANALISI

Gaza, una guerra che Israele sta perdendo

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Un cessate il fuoco alle attuali condizioni sancirebbe la sconfitta di Israele, ma anche l'attacco su Rafah sarebbe disastroso: per la popolazione palestinese e ancora per Israele dal punto di vista politico. Si deve risolvere il problema alla radice.
- VIDEO: C'è anche una questione israeliana

Editoriali 09_05_2024 English Español
Manifestanti israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi (LaPresse)

In attesa di una parola definitiva sul cessate il fuoco a Gaza, in questi giorni si passa in un batter d’occhio dalla convinzione di essere a un passo dalla meta, alla disillusione e al timore per il disastro annunciato dell’ingresso israeliano a Rafah.

Ovviamente tutti speriamo che le armi tacciano, almeno per un periodo in cui si possano riannodare i fili per trovare una soluzione politica; ma realisticamente non è un’impresa facile e comunque, per quanto il cessate il fuoco sia auspicabile, ci sarebbe poco da entusiasmarsi perché le prospettive non sono comunque rosee.

Le difficoltà per il cessate il fuoco vengono da entrambi i campi. Intanto il premier israeliano Benjamin Netanyahu si trova tra l’incudine e il martello: da una parte tutti i Paesi occidentali che fanno pressioni così forti per evitare l’attacco a Rafah, al punto che gli Stati Uniti hanno anche sospeso l’invio di armamenti. Sullo stesso fronte stanno anche i parenti degli ostaggi e moltissimi israeliani scesi in piazza in questi giorni che chiedono anzitutto il ritorno degli ostaggi e un accordo di pace. Dall’altra parte Netanyahu deve fare i conti con la destra estrema – rappresentata dai due ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir – che senza un attacco a Rafah farebbe cadere il governo. Inoltre se accettasse la prospettiva di una tregua definitiva, per Netanyahu sarebbe l’ammissione di una sconfitta, visto che l’obiettivo dichiarato di questa guerra è l’eliminazione di Hamas da Gaza: un disastro politico e militare dopo sette mesi di una guerra sanguinosa che ha via via isolato sempre più Israele a livello internazionale.

Sull’altro fronte è chiaro che Hamas gioca con le difficoltà di Netanyahu e ha alzato la posta dando l’annuncio dell’accettazione di un piano che prevede la tregua definitiva e il ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza, condizioni che – come è facile comprendere – sono impossibili per il governo israeliano. Del resto, avendo messo Netanyahu all’angolo, anche politicamente, Hamas non ha alcun interesse a trovare un compromesso con Israele.

Realisticamente perciò oggi abbiamo due opzioni: la prima è un cessate il fuoco che suona come una sconfitta per il governo israeliano, con la legittimazione della presenza di Hamas a Gaza. Vale a dire con un partito-milizia che ha come obiettivo l’annientamento di Israele e che, malgrado possa aver perso una parte delle sue strutture militari in questi mesi, si è rafforzato politicamente con l’odio anti-israeliano che l’azione militare voluta da Netanyahu ha contribuito a moltiplicare: non solo fra i palestinesi ma anche negli altri Paesi islamici e nel mondo, come le dimostrazioni in Occidente dimostrano.

L’alternativa al cessate il fuoco è però l’attacco israeliano a Rafah, con tutte le conseguenze disastrose che comporta, anzitutto dal punto di vista umanitario ma anche politico-militare. La sconfitta e l’eliminazione di Hamas resta altamente improbabile, come l’esperienza di questi mesi suggerisce, ma aumenteranno vittime e distruzioni, senza che peraltro sia ancora chiaro il piano di Israele una volta conclusa l’offensiva. Nello stesso tempo la distruzione di Rafah non potrà che allontanare ulteriormente gli alleati da Israele.

Insomma, al preoccupante segnale di vulnerabilità rappresentato dalla strage di Hamas del 7 ottobre 2023, si sta sommando un altro segnale di debolezza di Israele, incapace di eliminare il suo nemico, diviso al proprio interno e con i rapporti logorati con gli alleati occidentali. Situazione la cui responsabilità pesa molto sull’attuale governo Netanyahu. Paradossalmente un aiuto a Israele potrebbe arrivare dai governi di altri Paesi islamici per i quali diventa un pericolo di sicurezza interna e regionale la crescita dei fondamentalisti di Hamas e il rafforzamento dei loro sponsor, Iran e Qatar. Inutile dire che una vittoria di Hamas, lungi dal rappresentare il bene del popolo palestinese, sarebbe preoccupante anche per l’Europa, a cominciare dalla spinta che darebbe (e che in realtà sta già dando) al fondamentalismo islamico nei nostri Paesi.

Davanti a questo scenario diventa ancora più importante un’azione politico-diplomatica internazionale che non si limiti a fare pressioni per un cessate-il-fuoco immediato. Per quanto sia un’impresa complicata, si deve andare alla radice di questo conflitto per trovare una soluzione politica stabile e duratura, la cui premessa fondamentale è che deve essere rigorosamente escluso l’annientamento dell’uno o dell’altro.

Si è detto tante volte che si deve trovare una soluzione alla questione palestinese, e questo è assolutamente vero. Abbiamo un popolo non solo senza Stato e con un territorio che tende ad assottigliarsi, ma anche privato di alcuni diritti elementari. 

Ma deve anche essere chiaro che la questione palestinese non può essere risolta senza contemporaneamente risolvere anche la questione israeliana. Perché non dobbiamo dimenticare che la pretesa di Hamas e dei Paesi che lo sostengono è che Israele non esista. Ed è proprio l’esistenza di Israele il motivo per cui dal 1948 c’è la guerra in Medio Oriente.

Non si può dunque fare finta che creando uno Stato palestinese (peraltro a suo tempo rifiutato proprio dai Paesi arabi) si risolvano tutti i problemi. Sarà ancora più importante stabilire chi potrà guidare questo Stato, così come sarà fondamentale in Israele emarginare le forze secondo cui la salvezza dello Stato ebraico passa dall’eliminazione dei palestinesi.



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