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MEDIO ORIENTE

Gaza, la sfida di Hamas il dilemma di Israele

Di fronte alla decisione di Hamas di alzare il livello dello scontro, il governo israeliano - indebolito da altre defezioni - si trova di fronte a un dilemma: cercare di riportare la situazione sotto controllo con raid aerei o dare seguito alla minaccia di incursione di terra.  

Esteri 10_07_2014
Gaza

Quasi per inerzia siamo arrivati alle solite. Avete notato? Sul Medio Oriente da un paio di giorni nessuno parla più dei tre ragazzi israeliani uccisi a Hebron o del coetaneo palestinese di Gerusalemme Mohammed Abu Khdeir, bruciato per ritorsione da altri ragazzini ebrei, questa volta imbevuti loro di odio razziale. Siamo invece tornati all'ever-green di sempre: la guerra intorno a Gaza. Quella con i razzi che partono «seminando il terrore sulle città israeliane». E quella dei raid israeliani «che uccidono i civili, mica come i razzi palestinesi che in fondo non fanno nulla».

Le solite polemiche, le solite sicurezze granitiche su chi siano i colpevoli. È bastato davvero poco per spazzare via i dubbi che magari - invece - fermarsi un po' di più su quell'odio allo stato puro, testimoniato dalla morte atroce di ragazzi giovanissimi colpiti solo per la loro carta d'identità, avrebbe potuto suscitare. Magari anche ascoltando parole come quelle di Rachel Frankel, la madre del giovane «colono»; quella che - andando oltre gli stereotipi - non odia ma dice piuttosto che il sangue pianto dai palestinesi è uguale a quello che piange lei.

E invece rieccoci a parlare di Gaza, più o meno alla scadenza consueta; perché le tregue nella Striscia durano grosso modo un paio d'anni. Poi si ricomincia da un pretesto e parte qualche razzo a cui seguono i primi bombardamenti e i successivi razzi, fino a quando - in questa catena - uno dei due supera qualche linea rossa. E così dalla guerra di nervi si passa a quella con i morti (tanti) nella Striscia di Gaza e gli allarmi aerei su tutto Israele.

Questa volta è davvero difficile non riconoscere che è stato Hamas a scegliere di alzare il livello dello scontro. L'altra sera le fazioni palestinesi hanno sparato contemporaneamente su Beersheva, Tel Aviv, Gerusalemme, Hadera per far vedere che sono in grado di colpire tutto Israele. Contemporaneamente - ma senza successo - hanno provato a infiltrare dei commando per compiere un'azione terroristica in qualche località israeliana vicino a Gaza. Ieri poi hanno sparato persino contro Dimona, il sancta sanctorum dell'arsenale nucleare israeliano: un razzo è stato intercettato dall'Iron Dome - il sistema anti-missile - mentre altri due sono caduti in aree aperte.

L'ennesimo atto «dimostrativo» per galvanizzare i propri sostenitori (difficilmente un razzo del genere potrebbe creare danni seri a quello che immaginiamo sia uno dei luoghi più protetti di Israele). Ma nella strategia di queste ore ad Hamas non interessano i risultati; interessa solo far apparire forte un movimento che in realtà non è mai stato così debole. Perché con la guerra in Siria e la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto, Hamas ha perso tutte le sponde tradizionali; persino Erdogan, con i guai che ha a casa sua, in queste ore non si scalda più di tanto. Nel vespaio dei rapporti tra sciiti e sunniti - poi - oggi non è così facile andare a bussare alla porta di Teheran. E i nuovi arrivati del Califfato, al di là dei loro tweet entusiasti, sembrano molto più interessati a consolidare le proprie posizioni che a fare il passo più lungo della gamba, muovendo gli alleati che certamente hanno tra i jihadisti del Sinai. Alla fine - dunque - ad Hamas come alleato politico è rimasto solo il Qatar, che infatti è l'unico soggetto che in queste ore sta cercando di trattare una via d'uscita onorevole con Israele.

Che a sua volta, però, in questa vicenda si trova davanti a un dilemma tutt'altro che semplice. Intanto mai come oggi il governo israeliano è diviso: l'altro giorno - proprio nel mezzo della crisi - il ministro degli Esteri Lieberman ha rotto il patto elettorale con il Likud, il che significa una grana in più per Netanyahu che guida un governo già traballante.

Ma è soprattutto l'esercito ad essere restio rispetto all'ipotesi ventilata dai falchi dell'ultra destra, cioè l'incursione di terra a Gaza. Di fronte alla pioggia di razzi Tzahal ha richiamato i riservisti e ammassato tre divisioni ai confini con la Striscia. Ma non vuole ancora dire che abbiano intenzione di entrare. Per ora la strategia è quella dei bombardamenti dal cielo e dal mare, comunque pesantissima per i civili palestinesi. Unita alla fiducia in Iron Dome, il sistema che fino ad ora sembra aver contenuto i danni dei missili sparati su Israele. Ma anche dovesse esserci qualche vittima in una città israeliana e la pressione dell'opinione pubblica per l'occupazione della Striscia dovesse aumentare, il dilemma resterebbe lo stesso: che succede dopo? Che cosa comporterebbe per Israele tornare a controllare la Striscia con la sua popolazione di 1 milione e 600 mila palestinesi non certo ben disposti nei suoi confronti e in una situazione umanitaria sempre sull'orlo del collasso?  

Rispondere a questa domanda vorrebbe dire avere una risposta sul futuro di Gaza. Cosa che oggi nessuno - non solo in Israele - sembra avere. Per cui l'obiettivo resta sempre lo stesso: non tanto sradicare Hamas, ma «ristabilire la deterrenza». Con il solito tributo altissimo (e assolutamente inutile) di morti innocenti, in attesa del prossimo round.