Gaza, alle origini di una crisi ricorrente e inspiegabile
Mezzo mondo, a cominciare da Israele, si chiede perplesso cosa mai stia succedendo a Gaza. Per il groviglio di tensioni militari e politiche che si trascina da mesi e degenerato in questi ultimi giorni, al punto da lasciar prevedere un nuovo conflitto armato, che però non scoppia ma lascia il posto ad una inspiegabile tregua.
Mezzo mondo, a cominciare da Israele, si chiede perplesso cosa mai stia succedendo a Gaza. Per il groviglio di tensioni militari e politiche che si trascina da mesi e degenerato in questi ultimi giorni al punto da lasciar prevedere un nuovo conflitto armato, che però non scoppia ed invece esprime sul terreno un inspiegabile, immotivato, “cessate il fuoco” dalle sembianze di un armistizio. Inevitabile – secondo una logica apparente ma non condivisa – la crisi politica in Israele, per l’uscita dalla coalizione di governo del partito guidato dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman; velata quella sentita dall’Autorità Nazionale Palestinese per l’irritazione – mal nascosta – del suo capo Mahmoud Abbas, alias Abu Mazen, che vede sempre vani gli sforzi di ricondurre all’unità nazionale i fondamentalisti islamici di Gaza, e sempre meno credibile il suo autoreferenziale Stato palestinese.
Per capire qualcosa bisogna riandare indietro, alla nuova strategia intrapresa il 30 marzo scorso nella Striscia di Gaza per iniziativa del movimento fondamentalista palestinese Hamas, saldamente al potere, sostenuta da altre organizzazioni estremiste di antica formazione (“Jihad islamica”) e più recenti (alcune legate ideologicamente all’Isis), che ha come protagonisti decine di migliaia di civili, giovani e anziani, uomini e donne: loro obiettivo rendere incandescente, con una pressione continua, il confine con Israele. Un coinvolgimento popolare riuscito, per la partecipazione non solo alle settimanali manifestazioni di massa sino allo scontro fisico con i soldati ebrei schierati a difesa (erano cominciate con l’indizione di una “lunga marcia per il ritorno nella patria occupata”), e poi al continuo lancio oltre confine di ordigni di ogni genere, dagli aquiloni e aerostati capaci di appiccare il fuoco ai campi (in questo “ gioco per ragazzi” sono stati impiegati persino dei preservativi esplosivi e alcuni falchi!), ai razzi e agli obici di mortaio. La popolazione ebraica delle regioni limitrofe deve far fronte da otto mesi a un continuo stato di allarme, costretta a correre e vivere nei rifugi; in più gli incendi hanno devastato serre e coltivazioni, creando ovunque desolazione e danni ingenti.
Se il sistema di difesa israeliano “Cupola di ferro” si è rivelato semi-fallimentare, la rappresaglia è stata sempre dura, affidata soprattutto a raid aerei mirati a distruggere impianti e infrastrutture militari dei fondamentalisti; che tuttavia non hanno potuto risparmiare delle vittime. Nel frattempo, grazie agli sforzi diplomatici egiziani, è stato tentato un riavvicinamento politico tra Hamas, di fatto al potere nella Striscia, e l’Autorità Nazionale Palestinese, salda in Cisgiordania e riconosciuta dalla comunità internazionale. Ma quando sembrava avvicinarsi una loro concreta pacificazione, il primo ministro Rami Hamdallah recatosi da Ramallah a Gaza per verificarla, il 13 marzo subiva un attentato a Gaza da cui è uscito illeso ma la cui responsabilità è stata attribuita ad Hamas.
E in campo regionale sono apparsi dei cambiamenti di scena, sull’onda della svolta impressa alla politica estera statunitense dal nuovo presidente Donald Trump: questi non si è limitato a spostare la sede della sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola così capitale dello stato d’Israele e disattendendo le ambizioni dei palestinesi di averla come capitale del loro stato indipendente. Ha infatti disconosciuto il trattato nucleare con l’Iran sottoscritto dalla precedente amministrazione Obama e stretto invece più saldamente i tradizionali legami di amicizia con l’Arabia Saudita sunnita, rivale dell’Iran sciita. Un indirizzo che fra l’altro ha portato alla modifica delle relazioni tra Israele e molti stati della penisola arabica, passate dalla aperta ostilità e diffidenza alla comprensione e al dialogo.
Al mutamento del clima politico generale tra Israele e Arabia Saudita hanno fatto seguito di recente due eventi significativi: il 26 ottobre la visita-sorpresa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nell’Oman, il suo cordiale colloquio con il sultano Qaboos bin Said, le dichiarazioni del ministro degli esteri ad una conferenza panaraba nel Bahrein in cui ha spiegato anche le ragioni per cui Israele fa parte della regione mediorientale e ne è accettato. E due giorni dopo, ad Abu Dhabi, la cerimonia della vittoria dell’atleta israeliano Sagi Muki ad una competizione internazionale di judo è stata salutata dall’esecuzione dell’inno nazionale, anche se non dalla elevazione della bandiera con la stella di Davide, commuovendo sino alle lagrime il ministro della cultura e dello sport, la signora Mini Regev. Che era stata accolta ufficialmente dalle autorità dell’Emirato e accompagnata in visita alla moschea principale.
Un altro evento è stato però concausa della crisi governativa scoppiata a Gerusalemme. Proprio a ridosso di una delle peggiori offensive palestinesi da Gaza – il lancio lunedì e martedì scorsi di circa cinquecento razzi e colpi di mortaio sulle regioni di Ashqelon e Sderot prossime al confine – a cui è seguita l’accettazione del “cessate il fuoco” promosso dall’Egitto, il governo israeliano ha dato al Qatar il permesso di trasferire a Gaza, ad Hamas, ben 15 milioni di dollari in contanti. In televisione si è visto il passaggio delle valigie, quelle che dovevano essere colme di denaro, dal posto di frontiera. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il limite della sopportabilità, ha detto in una conferenza stampa il ministro della difesa Avigdor Lieberman, capo del piccolo partito di destra, il russofono Yisrael Beiteinu che con i suoi cinque deputati ha fino a ieri garantito alla coalizione una tranquilla maggioranza alla Knesset ed ora esige elezioni anticipate.
Naturalmente Lieberman ha enfatizzato la vicenda dei milioni di dollari (“è impossibile garantire che non vengano usati a scopi terroristici”) e il cessate il fuoco (“una vera capitolazione al terrorismo”). Ha condiviso l’acuirsi delle proteste degli abitanti del sud, segnate da una marcia dei loro giovani dal confine di Gaza a Gerusalemme. E ricordando che gli attacchi palestinesi sono cominciati otto mesi fa ha commentato: “Quel che stiamo facendo è guadagnare un po’ di calma a breve termine al prezzo della nostra sicurezza a lungo termine” quando occorreva ottenere, ha detto, il ritorno degli israeliani (tre civili disabili mentali e le salme di due soldati, ndr) trattenuti a Gaza e la cessazione degli scontri al confine.
Netanyahu ha incassato il colpo e per spiegare il suo comportamento ha colto l’occasione di una cerimonia commemorativa del “padre della patria” Davide Ben Gurion a Sde Boker, nel Negev, dove è sepolto. “Nei momenti difficili egli prese decisioni fatali, a volte andando contro l’opinione pubblica; ma con il tempo quelle decisioni si sono rivelate corrette” ha detto. Nei momenti di crisi, nel momento delle decisioni fatidiche in materia di sicurezza, il pubblico a volte non può essere messo a parte di considerazioni decisive, che devono essere nascoste al nemico”. E ha ribadito: “In questo momento, esercitare la leadership non significa fare la cosa facile, ma fare la cosa giusta anche se difficile. Esercitare la leadership significa resistere alle critiche quando si conoscono cose segrete e sensibili che non si possono condividere con tutti i cittadini del paese e,i n questo caso, con gli abitanti del sud che apprezzo moltissimo e ai quali sono vicino”.
Secondo alcuni commentatori Netanyahu ha resistito alle pressioni di avviare una grande operazione militare perché convinto che questa non abbia senso, ovvero di correre il rischio di ritrovarsi “il giorno dopo” esattamente come prima. Si riuscirà mai, dopo aver tenuto occupata la Striscia per almeno un anno, a stabilirvi un regime diverso e migliore che fermi gli attacchi e le violenze, quando non se ne vede uno all’orizzonte? Per altri, che credono di interpretare un sentimento popolare molto diffuso, il prossimo ciclo di violenze è soltanto una questione di tempo.