Gambia, la pacifica fine di una dittatura
Il mondo ha un dittatore in meno: Yahya Jammeh, presidente del Gambia ininterrottamente dal 1994. Questa volta, l'opposizione l'ha spuntata ed è stato eletto il suo rivale, Adama Barrow. Il Gambia è uno dei punti d'origine dell'emigrazione per l'Italia. I gambiani avranno più difficoltà ad ottenere asilo.
Da qualche giorno c’è un dittatore in meno al mondo. Non stiamo parlando di Fidel Castro. Ad andarsene è stato Yahya Jammeh, presidente del Gambia per 22 anni dopo aver preso il potere con un colpo di stato incruento nel 1994. Da allora in realtà è stato eletto quattro volte, ma era considerato ugualmente un dittatore sia per i brogli e le intimidazioni con cui si aggiudicava la vittoria al momento del voto sia per il modo di governare, autoritario ed estremamente duro nel reprimere i dissidenti. Il 1° dicembre, giorno di elezioni presidenziali, Jammeh contava di ottenere un quinto mandato: ha solo 51 anni, una vita davanti. Musulmano fervente, aveva detto di essere disposto a governare anche per un milione di anni se questa era la volontà di Allah.
Si vede che Allah ha voluto diversamente perché, a sorpresa, qualcosa è andato storto questa volta e Jammeh è stato sconfitto da Adama Barrow – 51 anni e musulmano devoto anche lui, due mogli, cinque figli, agente immobiliare di successo – che lo ha superato di quasi 10 punti percentuali ottenendo il 45,5% dei voti, sufficienti per vincere dato che, per volontà di Jammeh, tempo fa è stato abolito il ballottaggio e da allora la vittoria elettorale si decide al primo turno.
Premesso che in Gambia si vota con biglie e bidoni – l’elettore entra in un’area delimitata da tende per la privacy, butta la sua biglia in uno dei bidoni, di colori diversi, uno per ogni candidato (tre in questo caso), quando ha finito suona una campanella – la vittoria di Barrow sembra dipendere dal fatto che per la prima volta l’opposizione è riuscita a superare le divisioni e sette partiti hanno deciso di sostenerlo. Può averli aiutati un eccesso di sicurezza da parte del presidente, convinto di avere come al solito in mano la situazione, disponendo dell’apparato statale per manipolare il voto. È probabile che alla sua sconfitta abbiano contribuito i Mandinka, l’etnia a cui appartiene il 40% della popolazione e che Jammeh lo scorso giugno ha attaccato violentemente minacciando di spazzarla via dal paese.
Forse, siccome anche i partiti all’opposizione comprano voti, commissari e scrutinatori ai seggi, Barrow e i suoi sostenitori hanno speso meglio il loro denaro. Parlare di trionfo della democrazia, di modello per l’Africa, come molti fanno in questi giorni, sembra comunque eccessivo e inoltre sarebbe davvero ingenuo credere che il nuovo schieramento di sicuro governerà meglio del precedente, evitando corruzione e tribalismi. Chi conosce e studia l’Africa sa che succede di rado. I candidati alla presidenza annunciano sempre piani anticorruzione in campagna elettorale. Poi, se vincono, quasi sempre se ne dimenticano. It’s our turn to eat (Adesso tocca a noi mangiare): è il titolo molto eloquente di un libro della giornalista britannica Michela Wrong, pubblicato nel 2009, in cui è descritto il caso esemplare, tipico, del Kenya dove ogni nuovo governo si da al saccheggio dei fondi pubblici dopo aver promesso trasparenza e lotta al malgoverno prima del voto.
Il Gambia è lo stato africano più piccolo: una sottile striscia di terra incuneata nel Senegal, 80 chilometri di coste sull’Oceano Indiano, due milioni di abitanti soltanto. Ma questo piccolo paese merita il nostro interesse perché da qualche tempo il suo destino si intreccia con quello dell’Italia. I cittadini gambiani infatti, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono secondi dopo la Nigeria per numero di immigrati clandestini che sbarcano sulle nostre coste. Nei primi dieci mesi del 2016 ne sono arrivati oltre 11.000, ognuno pagando ai trafficanti circa 2.000 dollari. Negli elenchi dei richiedenti asilo divisi per nazionalità pubblicati dal Ministero dell’Interno occupano dalla terza alla quinta posizione: sono 700-800 ogni mese. A richiedere asilo erano stati 8.477 nel 2014 e 8.022 nel 2015.
Grazie alla cattiva fama del loro presidente, finora avevano avuto qualche probabilità in più rispetto agli altri emigranti africani di vedere accolte le loro richieste di asilo o almeno di ottenere l’ambita protezione sussidiaria che da diritto a risiedere in Italia per tre anni rinnovabili, con garanzia di assistenza sanitaria e sociale e possibilità di ottenere il ricongiungimento famigliare.
Adesso però diventerà più difficile. Anzi, con l’uscita di scena del presidente Jammeh viene meno la minaccia alla vita e alla libertà che, in base alla Convenzione di Ginevra, garantisce a chi ha ottenuto lo status di rifugiato di non essere rimpatriato. Le richieste in attesa di risposta andranno respinte, i clandestini che ancora arriveranno dal Gambia non hanno più motivo di chiedere asilo.
Resta il fatto che il Gambia è un paese povero. Per qualche commissione questo può bastare. A maggio un tribunale di Milano ha concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari a un immigrato del Gambia a cui erano stati negati sia l’asilo che la protezione sussidiaria, non essendo stato in grado di dimostrare di correre pericolo in patria. La motivazione è stata che, date le condizioni del paese, il rimpatrio lo avrebbe privato di un tenore di vita adeguato.
Tornando all’ex dittatore Jammeh, va detto che almeno negli ultimi mesi qualcosa di buono lo ha fatto. Ha proibito le mutilazioni genitali femminili un anno fa e i matrimoni infantili a luglio. Adesso chi sposa una minorenne rischia fino a 20 anni di carcere, tre anni e una grossa ammenda chi esegue mutilazioni genitali femminili.