Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
SIRIA

G20 diviso sull'intervento

Dieci Stati aderiscono all'appello di Obama per l'azione in Siria. Altri otto tacciono e dissentono. Le posizioni di Putin e del presidente americano sono inconciliabili e dividono, non solo i 20 Grandi riuniti a S. Pietroburgo, ma anche lo stesso Congresso Usa.

Esteri 07_09_2013
Obama e Putin

Il G20 di San Pietroburgo, un vertice di due giorni conclusosi ieri, si è trasformato in una specie di Consiglio di Sicurezza allargato, dove votare pro o contro l’intervento militare in Siria. I motivi di questa singolare metamorfosi sono tanti. In primo luogo: la spaccatura netta fra la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Barack Obama. Le due potenze non si parlano, da quando Edward Snowden, il “gola profonda” che ha rivelato i segreti della spionaggio elettronico statunitense, si è rifugiato in Russia, dove ha ottenuto un asilo politico. Ma questa è solo l’ultima goccia. La storia della crisi siriana è essenzialmente quella di una serie di veti russi e cinesi alle risoluzioni Onu di condanna al regime di Bashar al Assad. Per questo fondamentale motivo, Barack Obama ha deciso di usare l’occasione del G20 di San Pietroburgo per aggirare Russia e Cina e raccogliere il consenso che gli serve per lanciare l’attacco.

Il G20 ha però riconfermato la non conciliabilità delle posizioni di interventisti e anti-interventisti. Il presidente statunitense ha motivato la necessità di un intervento armato internazionale attribuendo ad Assad l’uso di armi chimiche, responsabili per la morte di 1.429 persone nei sobborghi di Damasco, lo scorso 21 agosto. La sua è una presa di posizione etica: il mondo “non può tollerare” l’uso delle armi di distruzione di massa, specie contro i civili. Il presidente Putin, al contrario, ha affermato anche al G20 che le armi chimiche del 21 agosto sono state usate dai ribelli «una provocazione lanciata dai militanti che ora si aspettano un appoggio esterno». La sua è una presa di posizione politica: un intervento internazionale in Siria, nel bel mezzo di una guerra civile, destabilizzerebbe tutto il Medio Oriente. Se ormai pare certo che le armi chimiche sono state usate, non è affatto chiaro chi ne abbia fatto uso. Gli ispettori dell’Onu potranno stilare un rapporto solo nella settimana del 15 settembre, probabilmente anche dopo. Le prove a sostegno della tesi di Obama sono state raccolte dall’intelligence statunitense e britannica. Le prove a sostegno della tesi di Putin sono state raccolte dall’intelligence russa e sarebbero confermate anche da alcune fonti giornalistiche indipendenti, come il reportage di due noti giornalisti (di cui uno è il corrispondente di Amman della Associated Press) di cui La Nuova Bussola Quotidiana ha dato notizia.

Nel corso del G20, attorno a Obama si sono raccolti 10 Stati membri: Arabia Saudita, Australia, Canada, Corea del Sud, Francia, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Turchia. Questi Paesi (fra cui il nostro) hanno sottoscritto un documento che chiede una “forte reazione internazionale” (senza specificare quale) sulla Siria. Con Putin, sul fronte non-interventista, restano gli altri 8 membri del G20: Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Germania, Messico e Sud Africa.

Il problema del fronte interventista, appunto, è la mancata definizione di intervento: armato o diplomatico. L’Italia, sempre che il governo Letta non cambi idea nelle prossime ore, non muoverà un solo aereo senza prima un’autorizzazione dell’Onu. Gli altri Paesi non accennano neppure a una loro partecipazione militare. Salvo il governo Cameron in Gran Bretagna, che vorrebbe intervenire, ma non ha il consenso in Parlamento. E la Francia di François Hollande, che potrebbe partecipare alla guerra, ma solo dopo avere in mano un rapporto definitivo degli ispettori Onu.

Gli stessi Stati Uniti sono profondamente divisi. Se Obama è arrivato ai lavori del G20 con almeno un’ora di ritardo, è perché era attaccato al telefono, con i suoi collaboratori, per convincere i membri del Congresso a dargli una luce verde all’azione militare. Con il 60% della popolazione contraria alla guerra (sondaggio Abc), Obama si trova a chiedere il consenso di un potere legislativo in cui rischia di finire in minoranza, anche grazie alla spaccatura interna del suo Partito Democratico. Stando alle attuali dichiarazioni di intenzioni, nel Senato degli Stati Uniti si contano 11 “no” (di cui 2 Democratici), 6 “no molto probabili” (di cui 1 Democratico), 19 “sì” (di cui 7 Repubblicani), altri 4 “sì molto probabili” (di cui 3 Repubblicani) e ben 60 “indecisi”, la maggioranza assoluta dei quali sono Democratici. Le sorti della Siria e del Medio Oriente sono appese soprattutto alla decisione di questi ultimi.