Francesco Faà di Bruno, apostolo nella Torino laicista
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Militare, scienziato e infine sacerdote e fondatore, pose i suoi mille talenti al servizio della carità. A 200 anni dalla nascita del beato torinese pubblichiamo alcuni estratti da La Bussola Mensile di marzo.

Militare, matematico, inventore, musicista e poi fondatore di un ordine religioso femminile e sacerdote: quella di Francesco Faà di Bruno è una figura tanto poliedrica quanto discreta, in vita e in morte. Al suo nome sono legate la Gran Carta del Mincio, la formula matematica detta appunto “di Faà di Bruno” e il miracolo architettonico della chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Santa Zita, con quel campanile così stretto e alto da costituire una sfida alle leggi della fisica e alla Mole Antonelliana. Al suo “santo di quartiere” lo scrittore cattolico Vittorio Messori – cresciuto da laicista all’ombra della chiesa del Suffragio – ha dedicato la biografia Un italiano serio (riedita nel 2024 da Ares col titolo Il beato Faà di Bruno. Cristiano e scienziato nell’età del Risorgimento) e diversi capitoli di Quando il cielo ci fa segno (Mondadori, Milano 2018).
Francesco nacque duecento anni fa, il 29 marzo 1825, da Luigi, marchese di Bruno e da Carolina Sappa de’ Milanesi: una famiglia che si distingueva non solo per i nobili natali ma anche per la fede e la carità. Il nostro si distinse anche sul campo di battaglia durante la Prima guerra di indipendenza e restando ferito nella battaglia di Novara che segnò la sconfitta sabauda. Si guadagnò la menzione d’onore e la stima dell’erede al trono Vittorio Emanuele, che aveva combattuto insieme a lui e lo voleva precettore dei suoi figli. Fu inviato alla Sorbona di Parigi per prepararsi a questo ruolo, che non assunse mai a causa dell’ostilità dell’élite risorgimentale: non sia mai che l’istruzione dei futuri sovrani venga affidata a un fervente cattolico. (...)
Nello stesso clima maturò l’addio alla carriera militare, nel 1853, quando Faà di Bruno rifiutò di vendicare un’offesa battendosi a duello, preferendo il disonore piuttosto che andare contro la propria coscienza. Tuttavia, non interruppe mai i contatti con la corte e le istituzioni sabaude quando la collaborazione poteva giovare alle opere di carità. Proprio come San Giovanni Bosco, suo amico e in qualche misura complementare a lui: laddove il primo prediligeva il “fare e tacere”, il secondo preferiva “fare e far sapere” il bene compiuto dai cattolici anche quando le autorità anticlericali mettevano i bastoni fra le ruote.
Quando dovette partire, Faà di Bruno lasciò proprio a don Bosco la direzione del calendario Il Galantuomo, che offriva consigli agricoli e religiosi ai contadini: era solo una delle tante idee con cui poneva il suo multiforme ingegno al servizio di Dio e del prossimo. Potremmo citare anche il Manuale del soldato cristiano, pensato per gli ex commilitoni, o la raccolta di canti sacri La lira cattolica, che meritò persino l’elogio del compositore Franz Liszt. O l’impegno nell’istruire il popolo sul nuovo sistema di pesi e misure «per far salva tanta povera gente dalle unghie de’ ciurmadori e degli arruffoni». Meno fortuna ebbe il progetto dei fornelli economici per fornire pasti caldi a prezzo bassissimo, ma non gratis, per salvare anche la dignità dei meno abbienti che ne avrebbero beneficiato. «Un’Opera che senza domandare troppo alle borse, ponga un efficace rimedio alla miseria, la quale suole maggiormente manifestarsi nell’approssimarsi dell’invernale stagione...», scriveva l’11 dicembre 1857 al ministro Urbano Rattazzi, esponendo dettagliatamente l’idea e con tanto di calcoli sui possibili costi. Ma il ministro rimase sordo alla proposta di Faà di Bruno (messa in pratica dal Comune solo più tardi e ad altre condizioni).
Dall’attenzione per le numerose donne di servizio disoccupate o comunque bisognose di assistenza materiale e spirituale nacque la Pia Opera di Santa Zita, fondata nel 1859. (...) Opera di carità di cui Faà di Bruno faceva presenti al re Vittorio Emanuele II i risvolti anche sociali, poiché «ponendosi a salvaguardia di una classe di persone finora negletta e che purtroppo per le loro circostanze particolari alimenta in massima parte, secondo le statistiche, la sempre crescente immoralità, è di un innegabile sostegno agli interessi più vitali della Società e si rende degna, perciò, del favore di chi ne regge i destini».
Essa fu il fulcro attorno al quale sorsero varie iniziative a sostegno di altre donne inferme, invalide o abbandonate. Le sue cure si estendevano poi ad altre categorie di “dimenticati”, preoccupandosi delle condizioni igieniche e del riposo festivo. Per l’Opera di Santa Zita progettò una “lavanderia modello”, che garantiva lavoro e sostentamento alle assistite, e diede inizio alla costruzione della chiesa del Suffragio, destinata alla cura spirituale del quartiere (allora malfamato) e alla preghiera per i caduti di tutte le guerre. E attorno alla chiesa e all’opera fondò nel 1869 la congregazione delle Minime di Nostra Signora del Suffragio, poiché «chi mira a Dio, a lasciare per secoli una successione di bene, non può far senza di religiose».
Una chiesa e una comunità di suore richiedevano un sacerdote rettore: ovvero lo stesso Francesco Faà di Bruno che intraprese la via del sacerdozio tra le obiezioni dell’arcivescovo di Torino e l’incoraggiamento del Papa Pio IX. Fu ordinato a Roma nel 1876, presagendo «poco più di un decennio» di ministero, durante il quale non cessò di prodigarsi per l’istruzione e l’edificazione dei più poveri e specialmente delle donne. Morì il 27 marzo 1888, pochi giorni prima di compiere 63 anni e poche settimane dopo la morte di don Bosco. Essendo in Settimana Santa anche le esequie dovettero svolgersi senza particolari cerimonie: discreto fino alla morte, anzi persino nella morte, il che non impedì alla gente del quartiere di affollarsi ad accostare rosari e altri oggetti alla venerata salma.
Erano le prime espressioni di una fama di santità che un secolo dopo sarebbe stata proclamata solennemente dalla Chiesa. (...) Eppure rimane ancora troppo poco conosciuto tra gli stessi cattolici: «La colpa è anche un po’ sua, di quel benedetto abate!», confidò a Messori una delle sue suore, lamentando quella proverbiale discrezione del suo fondatore, silenzioso ma tutt’altro che inoperoso, in terra e in cielo.
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