Forconi. In piazza il Quinto Stato
Chi scende in piazza nella rivolta dei forconi? Sono gli ambulanti dei mercati che rischiano di perdere la licenza, negozianti e partite Iva. È sceso in piazza il Quinto Stato, gli esclusi dalla globalizzazione. Serve un'analisi del fenomeno e una nuova politica.
Il fenomeno dei Forconi - osservato dalla città dove ha avuto il maggiore successo, Torino, e dove, con derive illegali inaccettabili, ha creato anche maggiori disagi ai cittadini - appare un po' diverso da come lo rappresentano molti giornali. Se è vero che il nome nasce in Sicilia, e da una protesta di agricoltori e camionisti - che ci sono anche nel fenomeno iniziato il 9 dicembre -, a Torino il nucleo duro e solido è rappresentato dagli ambulanti dei mercati. Per costoro, la scintilla che ha dato fuoco a proteste che covavano da anni ha un nome. Chi ha un banco al mercato si ribella contro la direttiva Bolkestein, un provvedimento dell'Unione Europea del 2006 che si occupa di svariate materie e che prende il nome dal deputato e leader del Partito Liberale olandese Fritz Bolkestein. È stata recepita dall'Italia nel 2010, con successive norme attuative del 2012. Prima della direttiva Bolkestein in Italia la concessione per un banco al mercato era di dieci anni, rinnovabili automaticamente alla scadenza, senza limiti di tempo. Si trattava dunque di qualcosa di simile a una proprietà permanente, che gli ambulanti avevano acquistato spesso pagandolo a caro prezzo. La direttiva elimina il rinnovo automatico e stabilisce che alla fine della concessione il posto al mercato ritorni al Comune e sia oggetto di una gara, dove l'esercizio precedente dell'attività in quel dato posto sarà solo una componente di un punteggio complesso. Inoltre, alle gare per questi posti potranno partecipare anche le società di capitali, il che significa per gli ambulanti avere per concorrenti i grandi supermercati, i quali attraverso banchi nei mercati potranno smaltire le loro eccedenze. È vero che nel 2012 l'Italia ha cercato di attenuare gli effetti della Bolkestein, rimandandone gli effetti a un periodo compreso fra il 2017 e il 2020 e allungando i termini di concessione dei posti, ma il principio rimane. Il posto al mercato acquistato con i risparmi di una vita non rimarrà a lungo dell'ambulante e non potrà essere trasmesso ai figli. Il Comune se lo riprenderà e aprirà una gara cui potranno partecipare anche i vari supermercati Auchan e Carrefour, dotati di ben altri mezzi rispetto all'ambulante.
Non basta. Per determinare il famoso punteggio nelle gare per i posti nei mercati sarà decisiva la regolarità fiscale e contributiva. E già oggi una legge del 2009 prevede che gli ambulanti per lavorare siano in possesso del DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva), che attesta la loro precisione nei versamenti INPS e INAIL. Se non ce l'hanno, devono chiudere. Ora, la crisi economica fa sì che molti ambulanti non riescano materialmente a pagare tempestivamente i contributi: dunque niente DURC, rischio non teorico di chiusura immediata e prospettiva di perdere tutto quando le leggi che applicano la Bolkestein inizieranno a produrre effetti.
Si aggiunge - e una ricerca che ho svolto con colleghi dell'Università di Torino anni fa me lo conferma - la concorrenza sempre più serrata di ambulanti e piccoli negozi di extracomunitari, specie cinesi, e l'impressione che, per ragioni di ordine pubblico e quieto vivere, i controlli delle autorità italiane siano meno severi nei confronti degli stranieri, la cui insofferenza sfocia più spesso in reazioni violente.
La protesta torinese è nata dagli ambulanti dei mercati, cui si sono unite categorie vessate nello stesso modo dal DURC e dai controlli, come le parrucchiere e le estetiste, o dalla prospettiva che le «liberalizzazioni» che vengono dall'Unione Europea tolgano valore a licenze acquistate a caro prezzo non diversamente da quelle dei mercati, a cominciare dai tassisti. Per chi conosce Torino, è evidente che queste categorie - ambulanti, parrucchiere, tassisti - hanno dominato le prime giornate di proteste. Si sono poi uniti altri, a partire dai Forconi «storici»: camionisti e agricoltori, qualche volta presentati come «privilegiati» perché ricevono dallo Stato qualche modesto aiuto ma anche loro esposti alla voracità del fisco, agli accordi sfavorevoli imposti dalla grande distribuzione, alla concorrenza sleale di camionisti e agricoltori stranieri che rispettano assai meno le regole sulla sicurezza del lavoro e l'igiene e sono quindi in grado di praticare prezzi inferiori. Ma c'erano anche disoccupati, studenti - diversi e distinti da quelli dei consueti movimenti studenteschi di sinistra - che semplicemente temono di non trovare lavoro, piccoli negozianti e artigiani impoveriti dalle tasse ed esasperati dagli atteggiamenti vessatori di Equitalia. E anche - numerosi, organizzati, talora violenti - i tifosi di calcio dei club, tra i quali ci sono sicuramente dei teppisti ma che hanno anche proteste non irragionevoli. Per esempio, a Torino come altrove, quando le curve sono chiuse perché qualcuno urla slogan razzisti non pagano solo i responsabili ma tutti coloro che hanno acquistato e pagato un abbonamento per la curva, e per una o più partite non possono usufruirne senza ottenere alcun rimborso. Il lettore che alzasse le spalle a proposito di questi problemi - che sembrano certo minori rispetto all'impoverimento e alla fame di altre componenti della protesta - dovrebbe riflettere sul ruolo decisivo che i tifosi di calcio hanno avuto in analoghe proteste in Grecia e in Turchia.
Sempre guardando alle manifestazioni di Torino, è importante segnalare chi non c'è. Oppositori della linea ferroviaria TAV, sindacati, attivisti dei diritti dei gay hanno cercato di scendere in piazza e pescare nella confusione, ma sono stati respinti e ora organizzano manifestazioni «contro» i Forconi. Lo stesso tentativo di recupero politico da parte di Grillo è un fatto romano o genovese. A Torino funziona poco, e alla fine i locali 5 Stelle si sono schierati contro la protesta. Semmai, insieme a slogan contro la Lega che ha deluso molti dei manifestanti, che pure l'avevano votata, si sono sentiti alcuni che gridavano «Viva Berlusconi» - contestati da altri, è vero - e si è vista la presenza della destra, parlamentare (Fratelli d'Italia, La Destra) ed extraparlamentare (Forza Nuova, Casa Pound).
Ma l'analisi politica viene dopo. Ha da dire - e non è solo deformazione professionale - più il sociologo del politologo. Il sociologo è indotto a rileggere qualche ultimo dei marxisti - come Luciano Gallino nel suo «La lotta di classe dopo la lotta di classe» (Laterza, Bari 2012) - che, al di là di un gergo vetusto e insopportabile e della proposta di vaghe ricette movimentiste, descrive un fenomeno reale: la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi super-ricchi, che è insieme causa ed effetto della lunghissima crisi economica, ormai la più lunga della storia moderna, e l'impoverimento del ceto medio che scivola nella povertà, nella proletarizzazione, nella disperazione e talora nella malattia.
Nella stessa chiave, spiega qualcosa dei Forconi «Il capitalismo in-finito» (Einaudi, Torino 2013) di un altro sociologo, Aldo Bonomi. Proprio in questi giorni si può visitare a Milano, al Museo del Novecento, una bella mostra sulla storia e la mitologia di un dipinto diventato un'icona socialista, «Il Quarto Stato» di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907). Grazie ai cattolici ben più che ai socialisti, quel Quarto Stato, il popolo dei lavoratori dipendenti, ha raggiunto oggi una condizione che non è certo ottimale, ma che regge meglio alla crisi rispetto a quello che Bonomi chiama il Quinto Stato: i lavoratori autonomi - piccoli commercianti, professionisti a basso reddito, partite IVA in crisi e anche ambulanti dei mercati, «padroncini» dei camion e tassisti - proletarizzati inflessibilmente dalla pressione fiscale e contributiva a tutto vantaggio dei super-ricchi.
Per citare Papa Francesco nell'esortazione apostolica «Evangelii gaudium» per questo Quinto Stato i poteri forti prevedono al massimo ruoli da «passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati». La stessa «Evangelii gaudium» - con toni che solo il clamoroso ritardo culturale e la scarsa dimestichezza con il Magistero cattolico di qualche apologeta protestante americano del turbo-capitalismo di Wall Street può scambiare per comunismo o socialismo - si esprime con notevole severità sui processi di impoverimento che creano «nuove forme di povertà» mentre concentrano ricchezze inaudite nelle mani di pochi favoriti dalla grande «speculazione finanziaria». Sono, a ben leggere, gli stessi toni della «Caritas in veritate» di Benedetto XVI, che non a caso aveva trovato durissime opposizioni negli stessi ambienti statunitensi e aveva suscitato in Italia l'interesse del curioso drappello dei «marxisti ratzingeriani». Va nello stesso senso il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014, appena pubblicato da Papa Francesco.
Chi però apprezza le analisi di Benedetto XVI e di Papa Francesco non può estrarne dal contesto solo le parti che gli piacciono. Deve accogliere anche il principio architettonico della dottrina sociale della Chiesa - e degli ultimi documenti - secondo cui la crisi economica non è solo economica, e non ci vuole più economia ma più etica. E il banco di prova di questa etica, ci ricorda Papa Francesco nella «Evangelii gaudium», è prendersi cura anche dei poveri più poveri, i nascituri uccisi con l'aborto, che «grida vendetta al cospetto di Dio», e gli anziani eliminati con la «cultura dello scarto» dell'eutanasia.
«Il conflitto - ci insegna la «Evangelii gaudium» -non può essere ignorato o dissimulato». Vale anche per i Forconi: e molti rischiano di guardare solo ai lati di colore o periferici della protesta sociale del Quinto Stato, che è invece strutturale e rischia di diventare permanente. Chi però vive solo di conflitto, continua Papa Francesco, del conflitto diventa prigioniero. È il caso di chi pensa di risolvere i problemi con la violenza, che va sempre condannata senza reticenze e senza riserve. Si tratta invece, continua la «Evangelii gaudium», di «sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in anello di collegamento di un nuovo processo». Per questo non aiuta, scrive il Papa, un «populismo irresponsabile». Si dovrebbe invece tornare alla politica, quella vera, promossa da quelle «nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale». Intesa così, «la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune». Dov'è questa politica, dove sono queste «nobili persone» in Italia? Forse non vanno cercate tanto nei palazzi, ma in quel popolo che in questi giorni manifesta - sempre più numeroso - per la famiglia, contro le ingiuste proposte di legge in tema di omofobia e «matrimoni» omosessuali, e anche tra chi - più confusamente, e con più gravi rischi d'infiltrazioni e manipolazioni - manifesta per il diritto di sopravvivere alle tasse, a Equitalia, al DURC, e a diktat cervellotici di un'Unione Europea dove gli interessi italiani trovano sempre meno rappresentazione e ascolto.