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GIORNO DEL RICORDO

Foibe, un crimine da non dimenticare

Il 10 febbraio era la Giornata del Ricordo in memoria delle foibe. Una pagina tra le più dimenticate e tormentate della nostra storia. Tra l’ottobre del 1943 e il maggio del 1945 i partigiani comunisti di Tito furono responsabili di un massacro. Parla lo storico Gianpaolo Romanato.

Cronaca 10_02_2013
Foibe

Oggi è la Giornata del Ricordo in memoria delle foibe. Una pagina tra le più dimenticate e tormentate della nostra storia. Tra l’ottobre del 1943 e il maggio del 1945 i partigiani comunisti di Tito furono responsabili di un massacro. «Centinaia e probabilmente migliaia di persone - spiega il professor Gianpaolo Romanato, docente di Storia contemporanea presso l'Università di Padova - furono gettate nelle foibe, quelle cavità del terreno carsico, usate da sempre dalla popolazione locale come discariche naturali. E questo avvenne a due riprese, nel settembre del 1943 e nella primavera del 1945. Il numero delle vittime non è mai stato esattamente quantificato e probabilmente non potrà esserlo mai. Molti furono gettati nelle foibe dopo essere stati uccisi in seguito a sommari processi, altri vi furono scaraventati ancora vivi».

Cosa rappresentano le Foibe nella storia italiana? 

Stiamo parlando di una pagina tra le più buie di quel secolo orribile che è stato il '900. Ma una pagina che va vista nel clima di violenza estrema che contraddistinse l'assunzione del potere da parte del movimento iugoslavo di liberazione a guida comunista.
Nelle foibe finirono ex fascisti, ma anche gente che col fascismo c'entrava poco o nulla: militari, sacerdoti, funzionari, professionisti. Le foibe furono lo sfogo di tanti sentimenti brutali: resa dei conti politica, vendetta personale, pulizia etnica, criminalità.

Come è stato possibile secondo lei?

Per farlo capire alle generazioni più giovani che, per loro fortuna, sono venute dopo queste vicende, bisogna ricordare che in queste terre gli episodi di violenza politica furono innumerevoli e le vittime si contarono a migliaia. Basterà ricordare il massacro di Bleiburg.
Quando parliamo delle terre a cavallo del confine orientale bisognerebbe abbassare la voce e fare meno retorica. Qui c'è ancora troppa gente che piange i propri morti.

Quanto contarono le precedenti violenze italiane in Jugoslavia?

Certamente contarono, e non poco. Ma ormai la storiografia su questo tema, particolarmente attiva dopo la caduta dei muri e la fine del comunismo, ha superato lo schema delle contrapposizioni e delle giustificazioni simmetriche che era prevalso fino a quel momento, e ha assunto una visione più equilibrata, nella quale si riconoscono italiani e sloveni. Una visione per nulla riduttivista o negazionista.
Basti citare le conclusioni (disponibili in vari siti internet) cui è giunta la Commissione storica italo-slovena, istituita nel 1993 dai due governi per rivedere in spirito di collaborazione il rapporto fra i due popoli.

Che tipo di conclusioni?

Dopo sette anni di lavori la Commissione ha elaborato un documento conclusivo che rappresenta ormai un punto fermo civile e culturale. A proposito delle foibe il documento scrive così: "Tali avvenimenti (cioè le foibe e le deportazioni nei campi di prigionia come quello famigerato di Borovnica, ndr) si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato in cui confluirono diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato iugoslavo.
L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani".
Non poteva essere detto meglio, anche in riferimento alla responsabilità storica che in questa vicenda va addebitata al comunismo iugoslavo.

Per quale motivo, secondo lei, il ricordo di quella tragedia è ancora oggi motivo di scontro politico?

Perché è una storia che gronda ancora sangue e che brucia nell'animo dei parenti degli infoibati. Ma anche perché è stata lungamente usata per motivi di scontro e di legittimazione politica, almeno fino a quando il comunismo ha diviso l'Europa.
Oggi è possibile guardare a quella vicenda con maggiore equanimità, anche se non vorrei più sentir parlare di "memorie condivise", un'espressione che non capisco.
Come ha scritto Roul Pupo, il maggior studioso di questo argomento, la memoria è sempre soggettiva e non interscambiabile con altre. Ciascuno ha la sua e non può condividerla con quelle altrui, soprattutto quando riguarda il dolore, il sangue, la morte. Sembra più equo e commisurato al dramma che avvenne in queste terre parlare di "purificazione della memoria", come ha fatto più volte il mondo cattolico triestino, cioè di riconoscimento delle ombre che hanno inquinato il ricordo e che vanno affrontate e non rimosse, in funzione di un futuro di convivenza e di rispetto che tutti vorremmo migliore del passato.