Foibe, i martiri cattolici della persecuzione titina
La pulizia etnica contro gli italiani della Venezia-Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, perpetrata dalle milizie comuniste titine e costata la vita ad almeno 12mila persone prese di mira anche i cattolici, sacerdoti e semplici cittadini. I nomi più ricordati sono don Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, oggi beati, uccisi entrambi in “odium fidei”.
La pulizia etnica contro gli italiani della Venezia-Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, perpetrata dalle milizie comuniste titine e il conseguente esodo delle ex provincie italiane (Pola, Fiume e Zara) annesse dalla Jugoslavia, sono ormai conosciute come la tragedia delle foibe, ricordata da una legge dello Stato del 2004 che ha istituito Il Giorno del ricordo per rinnovare la memoria e omaggiare le vittime dei massacri avventi tra il 1943 e il 1948 nelle terre del cosiddetto ‘confine orientale’.
Per circa 60 anni questa pagina di storia patria è stata strappata dai libri e dai circuiti della storiografia ufficiale. Per non infangare il mito delle resistenza e dei partigiani liberatori quegli eventi furono letti, nella migliore delle ipotesi, in un’ottica giustificazionista che prese per buona la vulgata delle vendette contro i fascisti oppressori.
Ovviamente non servirono accurate ricerche per far emergere la verità, ovvero che a finire nelle cavità carsiche della bellissima penisola istriana non furono solo soldati repubblichini ma tanti, migliaia, cittadini comuni italiani, e fra questi furono presi di mira soprattutto coloro che avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla slavizzazione di quelle terre: funzionari e dipendenti pubblici, finanzieri, guardie di frontiera, studenti e insegnati. Compresi alcuni antifascisti dichiarati che erano contrari all’annessione alla Jugoslavia comunista.
Ma oltre alle scuole, alle prefetture, ai tribunali e alle caserme, c’era un altro elemento che qualificava l’italianità dell’Istria e della Dalmazia, e questo era la presenza bimillenaria della Chiesa cattolica locale con il suo popolo devoto.
L’identità religiosa delle genti istrovenete era fra l’altro già di per sé per niente tollerata dai nuovi padroni della Jugoslavia che si rifacevano a quell’ideologia marxista che fece dell’ateismo uno dei fondamenti dello Stato. Fatto sta che infoibamenti, fucilazioni e massacri di ogni genere colpirono almeno 50 membri del clero. I nomi più ricordati sono don Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, oggi beati, uccisi entrambi in “odium fidei”.
Padre Bonifacio è stato beatificato nel 2008 come “martire delle foibe”. Aveva solo 34 anni quando fu ucciso nel settembre 1946 in Istria. Il giovane sacerdote venne fermato mentre rientrava da solo in parrocchia da tre attivisti titini. Lo denudarono, gli spaccarono la testa con una pietra e gli tagliarono la gola. Il cadavere non fu mai ritrovato perché probabilmente gettato in una foiba. Beato Francesco Bonifacio fu eliminato perché giudicato pericoloso per la sua capacità di dialogare con i giovani.
Brutale anche la morte di Beato Miroslav Bulesic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino, fu trucidato il 24 agosto del 1947 dopo aver cresimato 237 ragazzi nella chiesa di Lanischie, sempre in Istria. Alla fine della liturgia don Miroslav e monsignor Jacob Ukmar furono assaliti dai militanti comunisti che volevano impedire l’amministrazione delle cresime. Le milizie croate fecero irruzione nella canonica sgozzarono don Miroslav e picchiarono monsignor Ukmar.
Nel 1947 fu minacciato persino il vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, figura rimasta nel cuore di tutti gli esuli giuliano-dalmati, che a Capodistria (città che all’epoca ricadeva nella cosiddetta zona B contesa tra Roma e Belgrado) venne assaltato da una folla inferocita davanti allo sguardo indifferente delle guardie del Popolo. Ma non ci sono state solo le violenze fisiche, molte le croci divelte e le chieste sfregiate. La furia si rivolse soprattutto verso i cimiteri, furono profanate tombe e distrutte piccole cappelle, perché i nomi di quei morti ricordavano le radici di quella terra. Per questo motivo le spoglie dell’eroe nazionale della prima guerra mondiale, Nazario Sauro, furono traslate da Pola al Lido di Venezia
La ricercatrice romana e figlia di esuli Roberta Fidanza spiega alla Nuova Bq che il clero fu perseguitato perché visto come un protettore degli italiani: “Furono poche le esecuzioni mirate di sacerdoti, la maggior parte dei preti uccisi fu coinvolta in rastrellamenti contro le popolazioni del luogo”.
“Per i fedeli gli anni più difficili arrivano dopo il 1948, quando l’Istria passò definitivamente sotto la Jugoslavia di Tito”, sottolinea Fidanza, “per tutti gli anni ’50 fu proibita la professione in pubblico della religione cristiana, agli italiani che decisero di restare fu proibito persino di farsi il segno della croce in strada, un’anziana esule mi ha raccontato che durante il turno in fabbrica le fu strappa la croce che portava al collo”.
La ricercatrice racconta inoltre dell’obbligo della messa in croato: “Fu un vero shock, infatti molti membri del clero preferirono lasciare quelle terre e seguire il destino degli altri esuli”. “Uno di questi fu Fra Giulio Rella – aggiunge Fidanza – figura di riferimento per i ragazzi e bambini che vissero il dramma dell’esodo, animò la comunità giuliana che si stabilì a Roma e promosse un gemellaggio con gli esuli ospitati a Trieste”.
“Sicuramente – conclude Fidanza – gli esuli avevano un sentimento religioso molto forte, nei villaggi di fortuna dove furono ospitati furono subito celebrate delle messe e costruite cappelle, questa devozione ha consentito loro di superare delle prove terribili”.