Flat tax? Anche la tassazione progressiva è morale
Una risposta all'articolo "Flat tax e quoziente familiare, una rivoluzione possibile", da un punto di vista morale. La tassazione progressiva non va intesa come punitiva. Esiste una ragionevole giustificazione morale (di equità) nel prelevare una quota crescente del reddito per i bisogni collettivi al crescere del reddito individuale. Il problema sta semmai nel livello di imposizione e nel calcolo del reddito da tassare.
Nel suo articolo pubblicato sulla Bussola il 14 novembre, Stefano Magni propone un rapido confronto in termini di equità di due sistemi di tassazione del reddito: quello “progresssivo”, attualmente in vigore in Italia, e quello “proporzionale”, come nel caso della flat-tax che rientra, almeno in parte, nei progetti di riforma fiscale del nuovo governo. In estrema sintesi Magni collega l’equità di un sistema di tassazione con la sua proporzionalità: ognuno dovrebbe essere tassato in proporzione a quanto guadagna. Il sistema che prevede aliquote progressivamente crescenti al crescere del reddito non è proporzionale, chi guadagna di più paga di più non solo in valore assoluto ma anche in proporzione. La percentuale di reddito prelevata cresce con il crescere del reddito. Poiché il sistema progressivo nella narrazione corrente viene indicato generalmente come più equo di quello proporzionale, che favorirebbe i ricchi, Magni si chiede quanto questo sia vero. Concludendo, con un pizzico di polemica, che il sistema progressivo può essere giudicato “moralmente più equo” solo se “la ricchezza [viene] considerata una colpa”. L’intelligente provocazione di Magni merita di essere ripresa per ampliare la discussione.
Innanzitutto preferisco evitare di usare il termine ricchezza, visto che non stiamo parlando di una imposta patrimoniale (che ha un significato politico e morale completamente diverso), ma dell’imposizione sul reddito corrente. In secondo luogo, almeno da un punto di vista della logica economica, non è affatto necessario “colpevolizzare” la capacità di percepire redditi elevati per sostenere l’equità della tassazione progressiva. E questo senza bisogno di utilizzare argomenti troppo tecnici di microeconomia del consumo.
Il reddito monetario che viene tassato è un potere di acquisto a disposizione della persona per acquistare beni e servizi atti a soddisfare i suoi bisogni materiali e immateriali. La struttura dei bisogni tuttavia, come ha messo in luce negli anni ‘50 il sociologo Abraham Maslow, è tipicamente gerarchica: è necessario soddisfare i bisogni di tipo essenziale, come nutrirsi, vestirsi, avere una abitazione, prima di poter passare a quelli, via via meno materiali e più astratti, che vengono dopo: come l’istruzione o lo svago, fino ad arrivare a tutte quelle esperienze con cui cerchiamo di esprimere noi stessi e soddisfare i nostri bisogni più profondi. Questa realtà piuttosto ovvia è, ad esempio, uno dei motivi per cui la sensibilità “ambientalista” è molto meno diffusa nei paesi con basso reddito pro-capite rispetto a quelli più ricchi. Se voi e la vostra famiglia fate fatica a sbarcare il lunario, la riduzione delle emissioni gas serra potrebbe apparirvi un lusso eccessivo a fronte, ad esempio, dello sviluppo nella vostra regione di un sistema industriale ad alta intensità di emissioni ma in grado di creare molti buoni posti di lavoro.
Se dunque è vero, per fare l’esempio che fa Magni, che 20.000 euro di reddito hanno lo stesso potere di acquisto per chi guadagna solo quelli e per chi ne guadagna altri 80.000, è anche vero che la destinazione media, in termini di bisogni soddisfatti, di quella cifra nei due contribuenti sarà profondamente diversa. Mentre il percettore di reddito più basso destinerà una quota elevata del suo reddito alla soddisfazione di bisogni essenziali, il percettore con reddito elevato destinerà una buona parte del suo reddito a spese che potremmo definire, un po’ semplicisticamente, meno urgenti. È evidente che la situazione non è comparabile: la persona con reddito più elevato ha molti più “margini di manovra” per aggiustare i suoi consumi tenendo conto della tassazione, senza ridurre troppo il suo tenore di vita. È più facile decidere di risparmiare sull’abbonamento allo stadio che sulle spese per la salute non coperte dal Sistema Sanitario Nazionale.
Esiste dunque una ragionevole giustificazione morale (di equità) al fatto di prelevare una quota crescente del reddito per i bisogni collettivi al crescere del reddito individuale. Non si tratta di “colpevolizzare” i redditi alti ma di chiedere a chi ha più possibilità di contribuire maggiormente ai bisogni collettivi.
Quanto detto fin qui, ovviamente, non implica che un sistema progressivo di tassazione debba per forza essere preferito. Al di là dei principi morali generali, in campo economico l’accettabilità morale di una di una determinata politica (in questo caso fiscale) dipende in misura significativa anche dal modo in cui essa viene messa in atto. Così nel caso della tassazione progressiva, se il livello complessivo di imposizione sugli scaglioni di reddito più elevato giunge a livelli tali da implicare una riduzione del gettito fiscale è chiaro che sarebbe preferibile procedere con una sua riduzione. Sull’evidenza empirica di situazioni di questo genere gli economisti si accapigliano da anni ma è certo che un ulteriore inasprimento della della tassazione diretta dei redditi in Italia non sembra abbia grandi possibilità di aumentare le entrate dello Stato. È difficile fare previsioni, però in una situazione simile alla nostra una riduzione della pressione fiscale sui redditi più alti potrebbe (il condizionale è d’obbligo) avere un effetto maggiore, dal momento che, per ovvi motivi e semplificando un po’, sono i più benestanti ad avere una maggiore propensione al risparmio e in genere dove c’è risparmio tende ad esserci anche investimento e quindi sviluppo.
C’è inoltre da aggiungere che una tassazione progressiva molto spinta, può diventare profondamente iniqua quando il sistema fiscale appare cronicamente incapace di colpire una quota elevata del monte redditi reale, finendo per incidere in modo esagerato sui redditi che è difficile se non impossibile “nascondere” al fisco, come quelli da lavoro dipendente. Con il risultato di creare incentivi economici (anche se non giustificazioni morali, è bene dirlo) all’occupazione irregolare o in nero. D’altro lato una tassazione progressiva esagerata dei redditi da lavoro autonomo, che si basano spesso su progetti di tipo imprenditoriali, piccoli o grandi che siano, potrebbe scoraggiare l’intraprendenza economica e quindi, in ultima analisi, lo stesso sviluppo dell’economia. Anche in questo caso una semplificazione e una riduzione complessiva delle aliquote, applicando una tassazione lineare anche per scaglioni molto ampi di reddito (una delle ipotesi di parla l’articolo di Magni), potrebbe favorire un aumento del gettito.
Un’ultima considerazione, infine, va fatta sulla misurazione del reddito da sottoporre a tassazione. In questo caso sono completamente d’accordo con Magni: l’introduzione del quoziente famigliare, cioè il passaggio ad un modello fiscale in cui la capacità di contribuire ai bisogni collettivi di una famiglia si misura non sul monte redditi complessivo ma a partire dal reddito pro-capite dei suoi componenti (anche se opportunamente ponderato), sarebbe una scelta che accrescerebbe la giustificazione morale di entrambi i sistemi di imposizione, quello proporzionale e quello progressivo. Anche questa riforma è stata accantonata più e più volte per i rischi finanziari che comporterebbe, andando a modificare totalmente il calcolo della base imponibile nelle previsioni finanziarie. Tuttavia non si vede perchè, come si ipotizza un’introduzione prudente e graduale di una imposizione più proporzionale, non si possa fare altrettanto per introdurre il sistema del quoziente.
Mi sembra per concludere inevitabile ricordare come sia molto difficile individuare una soluzione semplice ad un problema complesso come quello del fisco italiano, stretto com’è tra vincoli di rigore, volontari o eterodiretti che siano (e forse si dovrebbe discutere anche sulla giustificazione di determinati patti internazionali per la stabilità finanziaria e sulla loro implementazione effettiva) e la necessità di favorire la libertà economica e non ostacolare uno sviluppo solido e duraturo del paese. Se un termine come flat tax può essere utile ad individuare un percorso che cominci a cambiare le cose a favore del bene comune ben venga. Purchè venga usato con realismo e non diventi una bandiera intorno alla quale maggioranza e opposizione alimentano una sterile polemica politica.