Figlio affidato al padre violento, grazie al sistema corrotto
Marito violento, per vendicarsi della moglie, ottiene la custodia del figlio, dichiarando il falso e "comprando" gli assistenti sociali. È quanto successo a Giada Giunti, una delle vittime del “metodo Bibbiano”, che da oltre tre anni non ha più in casa Jacopo, mentre da un anno le impediscono di vederlo. Una vicenda così marcia che ha mobilitato Parlamento e Ministro della Giustizia. Giovedì 16 luglio l’udienza decisiva alla Corte d’Appello.
Il calvario della signora Giunti e di suo figlio inizia il 15 dicembre 2016, quando, alle 9 del mattino, otto persone, di cui cinque agenti dell’anticrimine, si recano a prelevare Jacopo a scuola. Fino ai dieci anni, il bambino vive con la madre, dopo la separazione dei genitori, da lui affrontata con maturità e con una certa serenità. Jacopo non mostra segni evidenti del trauma vissuto, a livello caratteriale è calmo ed educato, a scuola, si distingue per i suoi voti alti. Alla richiesta degli otto uomini di seguirlo per recarsi alla sua nuova residenza, Jacopo si oppone per tre lunghe ore, piangendo e chiamando la mamma. Alla fine, uno di loro lo afferra per le gambe, altri due gli afferrano le braccia e lo caricano a forza su un’automobile per condurlo alla casa-famiglia dove alcuni mesi prima era stato destinato. La sistemazione è provvisoria. Nel decreto di allontanamento del 14 settembre 2016, il giudice minorile stabilisce che Jacopo, dopo un certo periodo nell’istituto, venga portato in casa del padre.
La decisione del Tribunale lascia incredula e adirata la signora Giunti. La Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) aveva qualificato il suo ex marito come un “uomo violento”, particolarmente scontroso e collerico, finanche durante gli incontri con l’educatrice. La personalità aggressiva del padre, si legge nella relazione della CTU, aveva determinato «un conflitto profondo e insanabile» con il figlio, da richiederne la sospensione degli incontri, ritenuti «violenti, inumani, deteriorati». Per quale motivo, allora, il padre è riuscito a strappare Jacopo alla madre? «Per ammazzarmi in vita, ha chiesto la casa-famiglia per il proprio figlio, ben consapevole che non avrei potuto vivere senza di lui», spiega la signora Giunti nel suo memoriale. Cosicché, l’uomo, «per raggiungere l’obiettivo, premeditato dal 2010, si è affidato a coloro che sono collusi con questo sistema di allontanamenti, pur di rovinarmi la vita».
Intanto la struttura dove Jacopo viene fatto alloggiare per sette mesi, si rivela fatiscente e piena di irregolarità nella gestione e nel personale. Dopo l’invio dei NAS, dell’ASL e degli ispettori del Municipio, Carlo Priolo, avvocato della signora Giunti, riesce a far portare via Jacopo da quel luogo. La perizia del Sostituto Procuratore e dello psicologo incaricato rileva che il bambino «a volte la notte non riesce a dormire e si mette a piangere», manifestando «una profonda sofferenza legata alla separazione dalla madre». Analogo il responso del Centro di Salute Mentale che prende atto della situazione di «intensa sofferenza» in cui il bambino versa e «a cui si è adattato-rassegnato con grande disagio».
L’allontanamento di Jacopo dalla casa-famiglia non riesce però a tradursi in un suo ritorno dalla madre. Sotto minaccia, il tutore intima alla signora Giunti di accettare la nuova sistemazione del bambino presso la nonna materna, che però vive in Toscana, a 400 km da Roma. Chiedendo spiegazioni, l’unica risposta che Giada riceve è: «A lei non lo daremo mai!». Per tre anni, tutto ciò che le viene consentito è di incontrare il figlio una volta a settimana, soltanto per un’ora, a casa della nonna.
Intanto, però, il padre sta preparando la sua vendetta: con la complicità dell’assistente sociale, dopo aver completamente isolato il bambino, sequestrandogli il cellulare e tutte le testimonianze scritte che dimostravano il suo desiderio di tornare dalla madre, il 31 luglio 2019, il Tribunale affida Jacopo al padre in via esclusiva. Motivo? La signora Giunti sarebbe troppo “simbiotica” nei confronti del figlio, ovvero eccessiva nel suo affetto, fin troppo apprensiva, in particolare riguardo alla sua salute. Il giudice minorile le avrebbe così revocato la responsabilità genitoriale, «perché ho chiamato l’ambulanza dopo mesi in cui mio figlio veniva alimentato con cibi contenenti il glutine», nonostante nel 2014, la Corte d’Appello, anche sulla base del certificato dell’ASL, gli avesse prescritto un’apposita dieta per celiaci.
Dall’agosto scorso, dunque, a Giada Giunti è stato tassativamente impedito di incontrare il figlio, con il quale le viene concessa una sola telefonata settimanale di appena venti minuti. «Come vive mio figlio? Io non lo so, non posso essere informata su nulla, nemmeno degli interventi chirurgici a cui è stato sottoposto, la scuola, la pagella, come conduce la sua vita, in sostanza». Jacopo vive ora sotto il ricatto di tornare alla casa-famiglia. Suo padre ha sempre distrutto o rispedito al mittente tutti i regali e le lettere che la madre inviava al figlio. Avrebbe persino sputato in faccia al legale dell’ex moglie, arrivando anche ad hackerargli la posta elettronica. Un clima di terrore e di illegalità, che il padre di Jacopo avrebbe seminato con la complicità degli assistenti sociali, attraverso relazioni palesemente false.
L’ingiustizia che Giada Giunti e suo figlio patiscono da tre anni e mezzo, si configurerebbe in una serie di violazioni delle normative italiane, anche penali, e delle convenzioni internazionali. Le lettere, le videoregistrazioni, i messaggi audio di Jacopo confermerebbero che il padre è violento, che il bambino è fortemente a disagio e non vorrebbe stare con lui. Secondo leggi sovranazionali come la Convenzione di Istanbul, il padre andrebbe tenuto lontano dal figlio.
Le false relazioni dei servizi sociali, secondo la madre di Jacopo e i suoi legali, vanno a calpestare anche articoli della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, della Convenzione Europea sui Diritti dei Minori, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, del nostro Codice Civile (artt. 330, 333, 337 quater ex 155 bis c.c.), la sentenza della Cassazione n. 20151 del 30 luglio 2018. La signora Giunti è stata anche condannata al pagamento delle spese processuali per 15mila euro e al pagamento di mantenimento per il figlio a favore dell’ex marito, che le dovrebbe 80mila euro ma nessuno gli impone di restituirli. La vicenda giudiziaria del piccolo Jacopo e di sua madre è finita anche in Parlamento, con un’interrogazione dell’onorevole Veronica Giannone (Gruppo Misto) al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha replicato, sottolineando «il pieno diritto di ascolto del minore, considerato che nel caso trattato sembrerebbe essere completamente trascurata la volontà di quest’ultimo». Jacopo, infatti, in varie lettere al giudice e ad altre personalità istituzionali, ha più volte ribadito il desiderio di ritornare dalla madre.
«Mio figlio chiede di tornare a vivere con la sottoscritta – conferma Giada Giunti –. Per legge le sue richieste devono essere ascoltate, soprattutto in presenza di accertata violenza da parte di un padre che gli ha distrutto parte della sua tenera vita da quando aveva quattro anni, fino ad oggi che ne ha quattordici». E il ragazzo, in un suo tema – valutato con un 10 dall’insegnante – rievocando la traumatica esperienza del prelievo forzato in classe, davanti decine di compagni sbigottiti, si è espresso con sorprendente maturità: «Secondo me, questa esperienza che ho vissuto, non deve insegnare niente a me, piuttosto a quelle tre persone che mi hanno preso con la forza e tutte le altre cose che mi hanno fatto… dovrebbero essere loro a capire qualcosa. Io penso di essere abbastanza rispettoso nei confronti degli altri, perché ho capito come ci si sente a non essere rispettati».